
Spazio FuoriSede
Intraprendere l’Università è un momento molto importante per la vita di ciascuno, in cui ci si muove verso il proprio futuro e le proprie aspirazioni, talvolta addirittura verso una nuova città.
Quest’ultima eventualità comporta il doversi confrontare con temi importanti come la separazione dai familiari e dagli amici, la realizzazione di sé, lo sviluppo di una propria indipendenza, la capacità di affrontare la lontananza ed il senso di solitudine.
Diventare studente fuorisede è, dunque, una condizione che comporta una serie di cambiamenti, a livello intimo e relazionale, che rendono questo momento della vita molto complesso. Come in molte situazioni di forte cambiamento e di crescita, lo studente può incontrare momenti delicati durante il suo percorso. Ci si può ritrovare a vivere difficoltà, blocchi di varia natura che possono influire sul proprio benessere e rendere questo momento della vita faticoso e poco gratificante.
Il Centro Psicologia tEssere mette a disposizione il servizio “Spazio FuoriSede”, pensato proprio per situazioni di impasse legate a questa fase della vita, al fine di promuovere e sostenere il benessere psicologico ed emotivo dello studente durante il suo percorso formativo.
CHE COS’È?
È un insieme di servizi rivolto agli studenti fuorisede con l’intento di offrire loro uno spazio per parlare di sé, per comprendere ed affrontare il loro disagio, con l’aiuto di psicologi e psicoterapeuti esperti.
I servizi disponibili sono:
• “Sportello di ascolto FuoriSede”
• Percorsi di consulenza e di psicoterapia ad un costo agevolato
Lo sportello permette di avere uno spazio d’ascolto, per provare a dare un nome al proprio disagio e per avere informazioni che possano aiutare a comprendere meglio la propria situazione ed orientare verso il percorso più idoneo da intraprendere.
Talvolta un incontro può essere sufficiente per superare la difficoltà incontrata, in altri casi invece può essere utile proseguire con un percorso di consulenza o di psicoterapia che permetta di delineare meglio quali siano gli aspetti da affrontare, comprendere e superare.
Gli obiettivi dello Spazio FuoriSede sono:
– creare uno spazio di riflessione rispetto al disagio avvertito dallo studente;
– valutare e comprendere la richiesta dello studente, per orientarlo nella scelta di una strategia di aiuto efficace rispetto alla problematica vissuta e alla specificità della sua situazione;
– agevolare e costruire una maggiore conoscenza di sé, delle proprie modalità di studio e relazionali, anche rispetto al proprio nucleo familiare di appartenenza;
– favorire la riflessione su di sé, esplorando i vissuti relativi alla situazione che si sta attraversando, per vivere i cambiamenti in modo più consapevole;
– attivare le competenze e le risorse personali e del contesto, per permettere un più funzionale adattamento alla nuova condizione.
A CHI SI RIVOLGE?
Spazio FuoriSede si rivolge agli studenti che vivono un momento di difficoltà e sentono il bisogno di essere supportati per comprendere meglio il proprio disagio.
COME SI ACCEDE?
È possibile accedere al nostro servizio prendendo un appuntamento per un primo colloquio tramite i nostri contatti. Successivamente si verrà ricontatti dal professionista della sede più vicina ed insieme si potranno concordare i passi successivi.
QUANTO COSTA?
Lo “Sportello di ascolto FuoriSede” è un servizio gratuito.
Il percorso di consulenza e quello di psicoterapia verranno effettuati ad un costo agevolato.

Fuorisede: in equilibrio continuo tra perdite e nuove conquiste
Il termine “fuorisede” può richiamare alla mente tematiche diverse: quella del viaggio, dell’alternarsi tra due città per mantenere le proprie origini ed investire sul proprio futuro; quella della libertà e della miriade di nuove opportunità a disposizione; quella del caos e dello smarrimento dato dal trovarsi catapultati in un posto nuovo con nuove regole e richieste; quella della responsabilità che improvvisamente si è costretti ad assumersi per far fronte agli obblighi del percorso di studi e della vita quotidiana; quella della ricerca di sé, frutto delle sfide quotidiane che questo cambiamento impone e dal confronto con i propri limiti e possibilità.
Trasferirsi in una nuova città per intraprendere un percorso di studi, è una scelta complessa, che porta con sé, in misura diversa per ciascuno, tutti questi aspetti e forse anche altri. Si tratta di una decisione importante, dettata dalla mancanza nel proprio paese, di possibilità adeguate a soddisfare i propri desideri, o dalla costatazione che sia l’unica reale alternativa per costruirsi un futuro o dalla necessità di allontanarsi da casa, dagli obblighi e dalle pressioni del proprio contesto di appartenenza, per sentirsi liberi di vivere la propria vita.
Al di là di quale motivazione ci sia alla base, diventare studente fuorisede implica una serie di cambiamenti, sia interni che esterni, che rendono questa condizione molto delicata.
Scegliere di cambiare città comporta dunque il doversi confrontare con temi importanti, come la separazione dai familiari e dagli amici, la realizzazione di sé, lo sviluppo di una propria indipendenza e, la sua contro parte, la capacità di affrontare il senso di solitudine. Il trasferimento, anche quando, nel migliore dei casi, è sostenuto dalle persone care e da una forte motivazione, viene affrontato con vissuti contrastanti che possono essere ricondotti al “dolore della perdita di ciò che si lascia e la speranza-fiducia di ciò che si acquista” (Scabini, Cigoli, 2000). Molto spesso si lascia prevalere uno dei due aspetti, dedicando tutte le energie nella costruzione della nuova vita o dando spazio esclusivamente ai sentimenti legati al distacco. Si tratta di due comportamenti che escludono vicendevolmente il passato o il futuro e che possono, in modo diverso, comportare dei disagi.
Un rischio a cui molte volte si va incontro, è quello di facilitare la separazione negando l’intensità del legame con le proprie radici, cambiando bruscamente la qualità della relazione con le persone di riferimento, procurando così, una frattura nei processi di appartenenza al nucleo familiare. La distanza fisica può, dunque, affiancarsi ad un allontanamento interiore, che spesso si realizza fingendo, a se stessi e agli altri, una completa autonomia nell’affrontare e gestire al meglio ogni situazione, senza aver bisogno di nessuno. In realtà questo atteggiamento nasconde una profonda fragilità che può venir fuori in forme diverse.
Meno celata, invece, la sofferenza di chi vive il trasferimento nel solo aspetto del distacco. I sentimenti suscitati dalla perdita della “vita precedente” non permettono di intravedere quanto si possa ricevere dall’esperienza che si sta vivendo nel presente.
La mancanza dei propri affetti può minare la capacità di ricostruirsi una quotidianità senza la presenza dei propri punti fermi. Inoltre può essere difficile apportare dei cambiamenti a livello personale per rispondere alle richieste di questo fase di vita. Potrebbe essere necessario assumersi delle responsabilità che fino a quel momento erano viste come lontane e la capacità di essere autonomi, di “riuscire a farcela da soli”, dovrebbe subire un rapido sviluppo. Affrettare i tempi dei consueti passaggi evolutivi può, però, non essere una scelta possibile in quel momento perché percepita come prematura. Tutto ciò rende faticoso l’inserimento nel nuovo contesto e le richieste dettate dal trasferimento possono essere vissute come troppo difficili. Gli ostacoli incontrati, talvolta, comportano la messa in discussione della scelta fatta ed anche delle proprie capacità.
Gli studenti si trovano, quindi, a vivere un momento molto complesso della propria vita, in cui è indispensabile riuscire a tenere insieme passato, presente e futuro.
Dare spazio ai propri vissuti, può facilitare il processo di adattamento alla nuova realtà. In particolare potrebbe essere utile esplorare le proprie paure ed i propri conflitti per affrontare il cambiamento con maggiore consapevolezza. Anche cercare di mantenere una continuità tra le esperienze passate e quelle attuali può aiutare a concentrarsi meno sulle differenze e maggiormente sui propri desideri ed i propri bisogni. Ad esempio può essere utile continuare ad alimentare le proprie passioni o conservare alcune abitudini personali.
Si tratta sicuramente di un momento molto delicato, in cui desideri e paure si alternano costantemente. Averli chiari e saperli distinguere, può aiutare a vivere il cambiamento non come una minaccia ma come un’occasione di crescita, in cui poter scoprire risorse personali e nuovi bisogni.
Bibliografia
Scabini E., Cigoli V. (2000). Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Milano: Raffaello Cortina.
Bowen M. (1979). Dalla famiglia all’individuo. Roma: Astrolabio.

Intelligenza emotiva: una chiave per il futuro!
Come dimostrato da numerose ricerche, i bambini più sereni, più sicuri di sé, migliori a scuola e anche più felici sono quelli con un’intelligenza emotiva più sviluppata. E non solo: sono anche coloro che, da adulti, sapranno affrontare in maniera efficace tutte le difficoltà e le sfide che la vita porrà loro dinanzi. Utilizzando quindi un’espressione di Howard Gardner, si può dire senza ombra di dubbio che l’intelligenza emotiva sia una vera e propria “chiave per il futuro”!
Intelligenti emotivi si nasce o si diventa?
Anche su questo le ricerche sono concordi: l’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, comprendere utilizzare e gestire in modo consapevole le emozioni proprie ed altrui, – essere insegnata, in famiglia e a scuola.
Secondo gli psicologi dello sviluppo, genitori, insegnanti ed educatori possono rappresentare dei veri e propri “allenatori emotivi”, nel momento in cui si mostrano capaci di parlare dei propri sentimenti, di dare loro un nome e di trovare una soluzione all’emozione negativa. Viceversa, un atteggiamento che sminuisce, rimprovera o non fornisce una guida all’ espressione delle emozioni, impedisce al bambino di instaurare un rapporto sereno con la propria sfera affettiva, esponendolo al rischio di problematiche comportamentali e psicologiche future.
Ma cosa fa concretamente un allenatore emotivo?
Cerca di comprendere la causa dell’emozione
È molto difficile che un bambino riesca ad identificare con precisione la causa del suo stato emotivo: spetta quindi al genitore riuscire a mettersi nei suoi panni per cercare di comprendere quale evento possa essere all’origine della sua emozione (la nascita di un fratellino, il litigio con un amico, l’ingresso alla scuola materna, un insuccesso scolastico…)
Considera ogni emozione negativa come una buona occasione per allenare il proprio figlio e ascoltarlo senza dare giudizi né soluzioni
Davanti alle manifestazioni emotive del bambino, non bisogna arrabbiarsi, spaventarsi e lasciarsi travolgere da emozioni negative…
Sedersi alla sua altezza, parlargli in modo rilassato, dedicargli del tempo, dimostrare di capire cosa prova, senza sminuire, criticare o ignorare le manifestazioni emotive del bambino sono piccole azioni concrete che rimandano al bambino quanto la propria emozione abbia valore e vada accolta ed ascoltata.
Aiuta il bambino a definire le emozioni che prova
Le sensazioni emotive possono risultare confuse, poco chiare, e quindi spaventose per un bambino se non c’è un nome con cui chiamarle. È importante quindi che parole come tristezza, noia, paura, rabbia…entrino a far parte del vocabolario quotidiano: dare un nome alle emozioni ha inoltre un effetto rasserenante sul sistema nervoso e aiuta ad uscire più in fretta dallo stato d turbamento.
Pone dei limiti ai comportamenti sbagliati e aiuta il bambino a trovare da solo una soluzione alternativa
Se da una parte bisogna accogliere l’emozione negativa, dall’altra è necessario far capire al bambino come alcuni comportamenti sono inaccettabili, senza ricorrere ad azioni che possono mortificarlo (urla, punizioni), ma incoraggiandolo a trovare soluzioni alternative, ad esempio con frasi come “capisco che Marco ti ha fatto arrabbiare perché ti ha preso la macchinina, ma non va bene che lo picchi per questo. Cosa potresti fare?”La ricerca di soluzioni alternative accettabili può essere facilitata attraverso un gioco che metta in scena l’accaduto o, per i bambini più grandi, attraverso la stesura di una lista. Può essere utile anche ricordare al bambino situazioni passate simili fronteggiate con successo, o raccontare la propria esperienza in circostanze analoghe.Dopo aver individuato delle soluzioni, bisogna accompagnare il bambino nella scelta della soluzione migliore, aiutandolo ad immaginare come si sentiranno lui e gli altri dopo quel comportamento: “come ti sentiresti dopo aver fatto così?, come si sentirebbero gli altri?”. La scelta del bambino deve essere assolutamente libera: il fallimento offre un importante opportunità per imparare, quando c’è accanto un adulto pronto a sostenere e che incoraggia a sperimentare un’altra alternativa!
Insegnare ai bambini a conoscere, gestire ed utilizzare le proprie emozioni significa equipaggiarli di una competenza che permetterà loro di essere non solo dei bambini e degli adulti più sereni, ma anche più protetti rispetto al rischio di future problematiche psicologiche e comportamentali. Inoltre, offre anche all’adulto una preziosa occasione per continuare ad allenare la propria intelligenza emotiva, in quello scambio arricchente che rende così affascinante l’educazione e la crescita dei più piccoli.
Bibliografia:
– D. Goleman, “L’intelligenza emotiva”, Rizzoli, Milano, 1996
– J. Gottman, J. De Claire, “Intelligenza emotiva per un figlio”, Biblioteca Univ. Rizzoli, Bologna, 2001
– P. Paoletti, “Alla scoperta delle emozioni”, Infinito Edizioni, Milano, 2009

Spazi vuoti – L’arte dell’attesa
Nel mio lavoro da psicoterapeuta mi capita spesso di trovarmi di fronte a situazioni emotivamente cariche di dubbio, di sofferenza, di crisi, che se da una parte richiamano l’idea dell’immobilità, del circolo vizioso che si ripete sempre identico e statico, dall’altra paradossalmente trasmettono il vissuto dell’urgenza del movimento, del bisogno della risoluzione immediata, della necessità del cambiamento.
Questo mi ha portato a ragionare su quanto alle volte possa essere faticoso mettersi in una posizione d’attesa, aspettare i tempi necessari per costruire; mi sono interrogata su quale sia il modo con cui di ognuno di noi nella quotidianità si relaziona con gli “spazi vuoti”.
Ti capita, durante la giornata, di entrare in contatto con dei momenti in cui l’unica cosa da fare è attendere? Come gestisci situazioni di questo tipo? Tendi a riempirle di “azioni”, di tentate soluzioni, di movimento? Oppure ti concedi di avere nella tua mente un angolino adibito a “zona relax” per essere comodo mentre li abiti?
Tutti noi aspettiamo qualcosa. C’è chi aspetta l’autobus per tornare a casa; c’è chi aspetta di sentirsi pronto; c’è chi aspetta una partenza; c’è chi aspetta il confronto con qualcuno; c’è chi aspetta un bambino; c’è chi aspetta di maturare una scelta; c’è chi aspetta che sia qualcun altro a maturarla; c’è chi aspetta che la pasta sia pronta.
E’ quindi evidente come questo discorso possa riguardare molti e diversi aspetti della nostra vita e di conseguenza, essere collocato a differenti livelli.
Racconta della quotidianità, riferendosi al modo in cui viviamo le “pause” tra un’esperienza e l’altra; parla del nostro modo di stare a contatto con la variabile “attesa” quando siamo alle prese con la costruzione di un progetto, ad esempio lavorativo; si riferisce ai vissuti che nascono in noi quando ci muoviamo nelle innumerevoli dinamiche relazionali che sono legate in qualche modo ad una “attesa”. Ma parla anche della fila al supermercato e dell’attesa dal medico.
Quale tipo di vissuto fa capolino dentro di te quando hai a che fare con uno spazio vuoto, che sia il traffico, la durata del viaggio, il tempo che ti separa da qualcosa di importante?
A volte è faticoso essere in un tempo che appare per certi versi “sospeso”, in cui è necessario tollerare vissuti ambivalenti, quote di “ignoto”, di non conosciuto, che vanno a creare realtà in divenire, in costruzione quindi incomplete, spezzettate, come tante tessere di un mosaico ancora da collocare.
Forse anche per questo alcune persone si affannano seguendo un ritmo convulso, dove le cose che si vorrebbero fare diventano molte di più del tempo che poi in realtà si ha a disposizione.
Qualche volta mi è capitato di sentir dire: “ci vorrebbe una giornata più lunga, 24 ore non bastano!”.
Spesso la nostra stessa giornata è articolata all’insegna dell’avere fretta, dell’efficienza immediata, di ritmi frenetici. Un po’ è un costrutto del nostro tempo, in cui “tutto è possibile”, tutto è “disponibile”, tutto è “alla portata di tutti”; per ogni tipo di cosa sembra palesarsi una “soluzione immediata”: un farmaco per dimagrire, un abito nuovo per essere più belli, un messaggio che arriva istantaneamente e ci mostri le sue belle spunte blu… va bene, sappiamo che è stato letto; quali reazioni automatiche fa nascere in noi la condizione di incertezza legata all’attesa della risposta, quell’ignoto che c’è fra noi ed una certezza?
Spesso essere sempre operativi ci fa sentire “efficienti”, “produttivi”, sicuri. Al contrario, attendere ci sembra una grande perdita di tempo!
Alcune volte può capitare che questa idea di fretta, la sensazione di doversi sbrigare, pervada anche aspetti importanti e delicati della nostra vita. Come viviamo quei momenti legati ad esempio, alla relazione con l’altro, quando ci rendiamo conto di avere tempi diversi di gestire un’attività, di programmare un’esperienza o di maturare una scelta?
Non sempre il nostro tempo psicologico coincide con quello dell’altra persona e questa mancata “sincronia” produce, alcune volte, vissuti negativi difficilmente tollerabili.
Ti è mai capitato? Come ti sei comportato? Sei riuscito a tollerare questa “discrepanza” o ti sei lasciato sedurre dalla tentazione di venirne fuori con rapidità?
Certo, il “vivere di corsa” non è necessariamente un problema, ritengo lo possa diventare in alcune situazioni:
nel momento in cui iniziamo a percepire quella modalità come la nostra unica alternativa possibile;
quando sentiamo il bisogno di rallentare, ma non ci riusciamo (pena il fare capolino di vissuti negativi);
quando non riusciamo a concepire la possibilità di velocità differenti rispetto alle diverse situazioni che ci troviamo ad affrontare e rispetto alle differenti fasi della vita.
Sempre all’interno di questa mia riflessione mi domando se non ci sia qualcosa che rischiamo di perdere con questo nostro bisogno di “riempire”.
Perché alcune volte può essere importante “attendere”?
Intanto mi viene in mente che vivere quell’ignoto ci permette di porci delle domande, di attivare una riflessione, sviluppare un pensiero. Consente anche di dare spazio alle nostre intuizioni, personali e creative, che per venire alla luce, necessitano un contatto con i nostri vissuti.
In secondo luogo ci consente di “pregustare” il risultato, di immaginare quanto possa essere prelibato un cibo che stiamo preparando, un progetto che stiamo costruendo, permettendo un confronto con le nostre aspettative, fantasie, tra la quello che accade e i nostri bisogni, e di comprendere eventualmente cosa modificare per sentirci più in armonia con i nostri obiettivi.
Prenderci del tempo permette anche di acquisire un consapevolezza personale sui vissuti difficili che l’attesa stessa genera in noi: cosa sentiamo? Qual è la spinta che ci porta ad agire? Da cosa deriva? Quali sono le nostre paure?
In ultimo, ma certamente non meno importante, agevola l’attivazione del “desiderio”; cos’è che non abbiamo e invece vorremmo? Come fare per ottenerlo? Aspetto questo che è un motore prezioso, che consente una spinta propulsiva in direzione di una vita, certo alcune volte più lenta, ma su misura per noi!
Lear More

Vado di fretta, non ho più tempo datemi retta…
Diceva Aristotele “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi del tempo libero” ma quando vivi la città capita di ascoltare commenti del tipo: “Oggi tutto di corsa!”, “Sono stanchissimo!”, “Sono sommerso dal lavoro!” ed anche “Ci vorrebbero giornate di 48 ore per fare tutto ciò che bisogna fare!”. La routine e gli impegni ci invitano ad inserire, uno dietro l’altro, impegni ed appuntamenti. Le agende ce lo ricordano ed anche se vogliamo incontrare il nostro partner, partecipare ad una riunione scuola-genitori o anche andare da soli al cinema bisogna spesso consultare colei che è la nostra segretaria cartacea o virtuale, che ci ricorderà “Oggi ed a quell’ora, probabilmente, non puoi!”. Ed ecco che la mente si arrovella su come poter riuscire ad inserire quell’ennesimo appuntamento, cascato lì tra capo e collo e che non avevamo preso in considerazione e tenuto sotto controllo, con il rischio di scombinarci i piani di un’ennesima organizzazione giornaliera e lavorativa.
Essere un lavoratore oggi, in una società che richiede livelli alti di performance e di obiettivida raggiungere, può essere complesso. Alle volte capita di dover essere produttivi anche fuori dal convenzionale orario di lavoro, magari durante la notte, il weekend o durante le pause.
Ma cosa ci spinge ad essere così performanti? A definire obiettivi, uno dietro l’altro, da raggiungere? Cosa ci spinge ad impiegare anche il nostro tempo libero al lavoro?
Del bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente ne parlava, già nel 1971 un medico e psicologo statunitense, W. E.Oates. Ed oggi, tale bisogno incontrollabile, rientra nel novero delle New Addiction ovvero in tutte quelle che vengono definite le nuove dipendenze. Tale bisogno si differenzia, però, proprio per il fatto che non si ricorre ad un agente esterno, come ad esempio l’uso di sostanze, per ottenere un immediato appagamento, ma invece ad un’attività che fa parte della vita quotidiana di una persona, finalizzata in questo caso ad una remunerazione. Tale bisogno incontrollabile è conosciuto come Workaholism e significa letteralmente “ubriaco di lavoro”. Robinson (1998) la definisce anche come la “dipendenza ben vestita” proprio per il suo carattere pervasivo ma non riconosciuto dalla società.
Ma quindi si può dire che il bisogno di lavorare incessantemente, utilizzando gran parte del nostro tempo libero, rappresenti una dipendenza?
In alcuni casi, sembrerebbe che, la vita intera sia centrata sul lavoro con conseguente e pesante riduzione del tempo libero da dedicare ad altro. Alla fine il tempo libero viene completamente assorbito dal lavoro e le pause, il divertimento, l’affetto e interesse vanno via via scemando. Il lavoro diventerebbe, come scrivono Lavanco & Milio (2006), uno stato d’animo, una via di fuga che libera il soggetto dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri. E l’elemento della vita che generalmente si altera più precocemente, a causa della dipendenza da lavoro, è il contesto familiare. Arrivando a percepire il coniuge come un estraneo tanto da conseguirne un serio deterioramento della sfera affettiva che indurrebbe aridità, apatia, cinismo e indifferenza tra i coniugi. Il lavoro ha, quindi, un effetto anestetizzante sulla sfera emotiva tanto da indurre una sensazione di distacco e di insensibilità. La sofferenza della famiglia è connessa a un sentimento di trascuratezza, solitudine, abbandono e le proteste dichiarate vengono vissute dal dipendente da lavoro come segno di rifiuto e ingratitudine.
Il fenomeno del Workaholism rappresenterebbe un caso al limite ma nella vita di tutti i giorni noi come percepiamo il nostro lavoro, quali significati gli attribuiamo e come influisce nella gestione del nostro tempo libero e/o familiare?
La fretta, l’imprevisto, il controllo, la riorganizzazione son tutti aspetti con i quali bisogna far i conti nella gestione della nostra giornata e mi vengono alla mente alcune frasi:
“…corro veloce per fare in modo che neanche l’imprevisto mi raggiunga!;
“Ho bisogno di sapere già da prima come sarà altrimenti non mi sento tranquilla”;
“Quando le cose son diverse da come me le ero immaginate mi confondo”.
Ma che effetto ci fa tutto questo? Come reagiamo al bisogno di tenere sotto controllo e di gestire anche l’improvviso imprevisto a valle degli impegni lavorativi e familiari?
Quali confini decidiamo di definire tra quella che rappresenterebbe la nostra vita pubblica e quella privata ed anche come si uniscono questi due aspetti?
In fine quale pensiero possiamo fare circa questa modalità di gestire gli eventi del quotidiano? È una modalità che ci fa sentire “comodi”con noi stessi? Ci fa stare bene oppure desideriamo altro?
Orsola Monteleone
Bibliografia:
- Lavanco, G., & Milio, A. (2006). Psicologia della dipendenza dal lavoro. Roma: Astrolabio Ubaldini.
- Oates, W.E. (1971). Confessions of a workaholics: The factsabout work addiction. New York: World.
- Robinson, B.E. (1998). Chained to the desk: A guidebook for workaholics, their parents and children, and the clinicians who treat them. New York: New York University Press.