
Di bisogni e relazioni
Ti è mai capitato di dubitare di te stesso? Hai mai avuto la sensazione di non riuscire a comprendere le cose o di non essere capace di valutarle in un modo sufficientemente affidabile? Hai mai evitato di dire la tua, perché tu per primo senti da qualche parte dentro di te, che si tratta di qualcosa di “poco importante”, poco intelligente, poco valido?
“Vorrei dire una cosa ma tanto non ha senso, mi sembra stupida…”
E’ una frase piuttosto comune. Ti è mai capitato di ascoltarla o di pronunciarla?
Spesso, mi capita di imbattermi in espressioni di questo tipo in terapia, magari prima di una rivelazione rispetto ad un pensiero, un’emozione, un vissuto scaturito da un certo evento.
Eppure questa espressione, per quanto comune e banale, potrebbe riflettere delle convinzioni rispetto a Sé, schemi di pensiero e di emozioni che si attivano sotto pelle.
Cos’è che porta alcune persone ad utilizzare espressioni di questo tipo?
Si tratta della sensazione di sentire alcune cose in un modo “non corretto” o non proprio affidabile, che non permette di auto- attribuirsi il buon riconoscimento di una importante “competenza”, quella di leggere in maniera appropriata le diverse situazioni. Racconta spesso di una condizione che la persona si è trovata a sperimentare: quella del dubbio sulle proprie percezioni, della perplessità rispetto all’affidabilità dei propri vissuti, dell’insicurezza personale.
“Avrò capito bene?”, oppure “Sicuramente è stata solo una mia impressione!” “Sarà proprio così? Ma no, impossibile, devo aver capito male!”.
La sensazione può essere quella della confusione, dell’impressione che manchino le capacità di decodifica della realtà, oppure quella del bisogno di cercare esternamente una conferma alle proprie impressioni, magari contrastanti, che faticano a trovare uno spazio interno di convivenza.
Alcune volte, naturalmente, può capitare a chiunque di sperimentare un certo vissuto ma, allo stesso tempo, di non fidarsi completamente delle proprie percezioni. Chiaramente, un fatto di questo tipo può avere diverse spiegazioni. Può alle volte significare, semplicemente, un volersi prendere del tempo per valutare perché, ad esempio, alcuni aspetti richiedono una maggiore riflessione; può essere dovuto alla fatica che si fa, in alcune circostanze, nel tollerare e tenere insieme dei vissuti interni ambivalenti, oppure ancora, può essere una scelta consapevole, uno spazio che si sceglie di prendere nel tentativo di considerare punti di vista alternativi.
La sensazione di insicurezza non è di per sé dannosa, può capitare di farne esperienza e in piccole dosi può anche essere utile e funzionale. Tuttavia, quando investe molte aree della propria vita e persiste nel tempo, rischia di diventare dannosa e limitante, portando con sé il rischio di inibire scelte, decisioni, possibilità. Per qualcuno questo senso di incapacità che porta a screditare i propri stessi vissuti, può diventare un tasto dolente, una specie di schema che si attiva e che porta a mettere costantemente in discussione l’adeguatezza delle proprie emozioni, delle proprie impressioni o dei propri pensieri. La persona in questo caso ha delle percezioni, delle proprie chiavi di lettura, dei pensieri su alcune situazioni, ma non si riconosce la possibilità di fidarsi di sé. Spesso allora ci si rivolge verso l’esterno, nel tentativo di cercare una conferma alla legittimità dei propri vissuti.
Ma in che modo questa caratteristica che potremmo definire per certi versi interna all’individuo, intrapsichica, è collegata al nostro mondo di esperienze relazionali, attuali e passate?
Quello di validazione è un bisogno relazionale fondamentale, tutti nella vita abbiamo bisogno di sentirci “riconosciuti” e “confermati” nel nostro modo di leggere la realtà. Accade frequentemente in moltissime situazioni, anche quotidiane. Accade cioè tutte le volte che sentiamo che l’altro ci restituisce la legittimità delle nostre emozioni.
Viene sperimentato in esperienze relazionali in cui ci si sente ascoltati, si percepisce una buona vicinanza emotiva e l’altro in qualche modo “conferma” la nostra esperienza interna, il nostro universo di significati.
Tutto ciò, naturalmente, è attivo sin dalla nostra infanzia, quando la relazione passa in maniera privilegiata attraverso il legame con le nostre figure di riferimento. E’ quello, infatti, il contesto d’elezione in cui iniziamo a ricevere (o meno) un riconoscimento e una giusta restituzione di competenza. I genitori offrendo risposte validanti appagano, quindi, il bisogno del bambino di valorizzazione del proprio modo soggettivo di sentire, di pensare, di attribuire significati. A ciò si aggiungono, con il tempo, tutte le altre esperienze relazionali che nella vita andiamo sperimentando, anche da adulti.
Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti validati e di avere una percezione positiva di noi stessi. Abbiamo la necessità di sentirci capaci, forti, affidabili. Quando la percezione di noi stessi si arricchisce di negatività personale, diventa tutto molto più faticoso, innanzi tutto su un piano cognitivo, ma poi anche su un piano emotivo e comportamentale.
Ricordiamoci sempre che il nostro modo di vedere le cose non è una verità assoluta, è appunto il “nostro” modo, costruzione che parte da noi stessi, dalla nostra sfera emotiva, dal nostro bagaglio di esperienze, dal nostro modo di essere. E deve rimanere per noi prezioso e importante, se non altro come punto di partenza per poter esplorare, ipotizzare, osservare e riflettere, incontrare l’altro, affiancare nuove visioni.
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