
La casa tra mondo interno ed esterno. Psicologia dell’abitare.
In psicoterapia, il pensiero sullo “spazio” inteso come luogo in cui si condivide, come “contenitore” ed anche come “cornice”, acquista notevole importanza, proprio perché al suo interno si avvia e prende forma il lavoro terapeutico. Il “luogo che accoglie” diventa, pertanto, il contesto spazio-temporale al cui interno si sviluppa un percorso evolutivo, contenendo e organizzando la relazione tra terapeuta e paziente.
Da ciò, lo “spazio fisico” e lo “spazio interno” si intrecciano, diventano un tutt’uno, permettendo l’espressione ed il contenimento di dinamiche relazionali, cognitive ed emotive.
Anche nelle storie delle persone che incontro in stanza di terapia ci sono spesso riferimenti ai luoghi della loro vita, vicini o lontani, intrisi di ricordi, di comportamenti, di relazioni, insomma…della vita che scorre. Questi luoghi diventano alle volte delle porte di accesso al mondo interno degli esseri umani, alle varie parti del loro Sé, al loro universo relazionale.
Ricordo, in particolare, una stanza con al suo interno una libreria, ritenuta inavvicinabile perché generatrice di ansie, che ha accompagnato l’intero percorso terapeutico di una donna, diventando per lei testimonianza nel reale e, al tempo stesso, metafora, dapprima della sua paura e confusione, della sua difficoltà di accesso ad alcune parti di sé e, successivamente, della sua evoluzione interna, del suo “cambiamento”. Cambiamento che è diventato interno quanto esterno, consentendole in questo caso un accesso “reale” a quella stanza e a quella libreria, per riorganizzarle, abbellirle, ricostruirle, trasformarle in qualcosa di nuovo, naturalmente senza poter prescindere dal materiale originario.
I luoghi sono spesso presenti anche nei sogni che le persone portano.
Ricordo ad esempio un sogno ricorrente di un uomo, in un periodo per lui di importante lavoro su di sé: il contenuto era legato alla improvvisa scoperta della presenza nella sua casa di una “stanza nuova”, grande, mai vista prima. Una stanza che gli era molto utile, ma che non sapeva di avere…
Emerge da questi esempi come l’ambiente esterno, fisico, nel quale siamo immersi e i nostri aspetti interni, mentali, tendano a confondersi. L’ambiente abitativo, porta con sé perlomeno una duplice valenza, da una parte legata al concreto, alle abitudini di vita, al suo essere un oggetto del reale (la cui conquista, inoltre, porta spesso con sé importanti sacrifici)… dall’altra al suo essere entità simbolica, metafora (T. Filighera, A. Micalizzi, 2018).
Questo continuo andirivieni tra interno ed esterno, luoghi fisici e mentali, mi ha indotto a riflettere sulla relazione esistente fra il benessere individuale e l’ambiente abitativo.
Che tipo di rapporto esiste tra l’essere umano e l’ambiente che egli occupa?
Il concetto dell’abitare, non può essere considerato da un punto di vista meramente statico, fisico, in quanto psicologicamente vissuto pertanto dinamico, fluttuante, in movimento. E’ un legame forte quello tra la casa e colui che la abita: l’individuo certamente modifica il suo ambiente in base ai propri vissuti, alle proprie emozioni, ai propri bisogni, ma è innegabile come la qualità dell’ambiente stesso abbia un effetto sull’individuo, in termini di maggiore o minore benessere. Inoltre, nella percezione di un ambiente, la persona non è qualcosa di esterno e scollegato, ma ne è parte integrante, in quanto tra i due esiste una interazione costante (Baroni, 1998).
Chi vive un ambiente, in quel contesto si definisce, esprime e manifesta parti di sé, attitudini, preferenze, stili di vita e ciò conferisce un’identità a quel luogo, in un gioco di rispecchiamenti con l’identità della persona (Proshansky et al, 1983).
Tutti abbiamo bisogno che il nostro spazio parli di noi, ci rappresenti, che racconti i nostri vissuti, le nostre narrazioni individuali e familiari, e ciò ci aiuta nel mantenimento di una dimensione storica personale. L’identità di un luogo è, infatti, strettamente legata ai nostri ricordi, in quanto in essa confluiscono emozioni, relazioni, bisogni psichici, memorie di altri luoghi. Il rapporto positivo con l’ambiente è, dunque, un aspetto importante nell’identità individuale (Baroni, 1998).
L’ambiente domestico è anche un prezioso “contenitore” (De Marco, 2015), in quanto racchiude in sé tutto ciò che al suo interno avviene. Pensiamo un attimo alle dinamiche relazionali di una famiglia: rituali, incontri, saluti e distacchi, festeggiamenti e tristezze. Un flusso relazionale ed emotivo continuo che all’interno della casa, trova spazio, si manifesta.
Altra funzione che l’ambiente domestico svolge, tanto reale quanto simbolica, è quella di definire un “confine” verso l’esterno, verso tutto quello che chiudendo la porta d’ingresso si lascia fuori. Indica un limite tra ciò che si accetta di fare entrare e tutto quello che all’interno di quel confine non trova uno spazio, una collocazione. Questo significa “rifugio”, protezione, luogo in cui soddisfare i propri bisogni di sicurezza e appartenenza. Attraverso l’esperienza abitativa ognuno di noi declina, in base ai propri costrutti, la dicotomia dentro/fuori, accoglienza/chiusura.
Tutti questi aspetti ci suggeriscono come sia importante, per il benessere di una persona, avere un rapporto positivo e soddisfacente con il proprio spazio abitativo.
La psicologia ambientale si occupa proprio di quel particolare rapporto che lega l’individuo al suo spazio fisico: relazione certamente circolare, in cui il luogo fisico in cui si è immersi modifica e condiziona l’essere umano, così come l’essere umano modifica e co-costruisce il proprio ambiente.
Psicologia e architettura, per quanto possano sembrare discipline concettualmente distanti fra di loro, in realtà operano su un terreno di continuità, in quanto gli aspetti fisici, oggettivi dell’abitare, appaiono intrecciati con dinamiche più propriamente psichiche, connesse ad esempio al concetto di “attaccamento”, “appartenenza”, “bisogni personali” , vissuti emotivi che un certo posto evoca, ecc.
Il “buon abitare”, così come la sensazione di benessere personale che si prova nel proprio ambiente, passa anche da un gioco di continuo rispecchiamento, tra gli aspetti oggettivi e concreti della propria casa e le proprie parti di sé.
Nel progettare o anche solo nel fantasticare dei cambiamenti rispetto alla propria casa, sarebbe dunque utile avere in testa oltre ad un modello fisico di riferimento dell’ambiente sul quale si opera, anche un modello di natura “mentale”, con un approccio aperto e multidisciplinare (Arielli, 2003).
Tutto ciò consentirebbe una sensazione di maggiore benessere personale, con l’obiettivo di considerare lo spazio non solo come un ambiente da occupare, ma come un’opportunità per “essere” e sentirsi in armonia.
BIBLIOGRAFIA
- Arielli E. (2003) “Pensiero e Progettazione” Mondadori editore, Milano;
- Baroni M.R. (1998) “Psicologia ambientale” Il Mulino, Bologna
- De Marco S.M. (2015) “Psicologia e architettura: studio multidisciplinare dell’ambiente” Aletti Editore;
- Filighera T., Micalizzi A. (2018) “Psicologia dell’abitare. Marketing, architettura e neuroscienze per lo sviluppo di modelli abitativi” Milano, Franco Angeli.
- Proshansky H.M. et al (1983) “Place-identity: phisical world socialization of the self”, Journal of environmental Psychology, 3, 57/83;
- Robinson S., Pallasmaa J. (2015) “Mind in Architecture: Neuroscience Embodiment, at the future of design” The MIT press, London;
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Di bisogni e relazioni
Ti è mai capitato di dubitare di te stesso? Hai mai avuto la sensazione di non riuscire a comprendere le cose o di non essere capace di valutarle in un modo sufficientemente affidabile? Hai mai evitato di dire la tua, perché tu per primo senti da qualche parte dentro di te, che si tratta di qualcosa di “poco importante”, poco intelligente, poco valido?
“Vorrei dire una cosa ma tanto non ha senso, mi sembra stupida…”
E’ una frase piuttosto comune. Ti è mai capitato di ascoltarla o di pronunciarla?
Spesso, mi capita di imbattermi in espressioni di questo tipo in terapia, magari prima di una rivelazione rispetto ad un pensiero, un’emozione, un vissuto scaturito da un certo evento.
Eppure questa espressione, per quanto comune e banale, potrebbe riflettere delle convinzioni rispetto a Sé, schemi di pensiero e di emozioni che si attivano sotto pelle.
Cos’è che porta alcune persone ad utilizzare espressioni di questo tipo?
Si tratta della sensazione di sentire alcune cose in un modo “non corretto” o non proprio affidabile, che non permette di auto- attribuirsi il buon riconoscimento di una importante “competenza”, quella di leggere in maniera appropriata le diverse situazioni. Racconta spesso di una condizione che la persona si è trovata a sperimentare: quella del dubbio sulle proprie percezioni, della perplessità rispetto all’affidabilità dei propri vissuti, dell’insicurezza personale.
“Avrò capito bene?”, oppure “Sicuramente è stata solo una mia impressione!” “Sarà proprio così? Ma no, impossibile, devo aver capito male!”.
La sensazione può essere quella della confusione, dell’impressione che manchino le capacità di decodifica della realtà, oppure quella del bisogno di cercare esternamente una conferma alle proprie impressioni, magari contrastanti, che faticano a trovare uno spazio interno di convivenza.
Alcune volte, naturalmente, può capitare a chiunque di sperimentare un certo vissuto ma, allo stesso tempo, di non fidarsi completamente delle proprie percezioni. Chiaramente, un fatto di questo tipo può avere diverse spiegazioni. Può alle volte significare, semplicemente, un volersi prendere del tempo per valutare perché, ad esempio, alcuni aspetti richiedono una maggiore riflessione; può essere dovuto alla fatica che si fa, in alcune circostanze, nel tollerare e tenere insieme dei vissuti interni ambivalenti, oppure ancora, può essere una scelta consapevole, uno spazio che si sceglie di prendere nel tentativo di considerare punti di vista alternativi.
La sensazione di insicurezza non è di per sé dannosa, può capitare di farne esperienza e in piccole dosi può anche essere utile e funzionale. Tuttavia, quando investe molte aree della propria vita e persiste nel tempo, rischia di diventare dannosa e limitante, portando con sé il rischio di inibire scelte, decisioni, possibilità. Per qualcuno questo senso di incapacità che porta a screditare i propri stessi vissuti, può diventare un tasto dolente, una specie di schema che si attiva e che porta a mettere costantemente in discussione l’adeguatezza delle proprie emozioni, delle proprie impressioni o dei propri pensieri. La persona in questo caso ha delle percezioni, delle proprie chiavi di lettura, dei pensieri su alcune situazioni, ma non si riconosce la possibilità di fidarsi di sé. Spesso allora ci si rivolge verso l’esterno, nel tentativo di cercare una conferma alla legittimità dei propri vissuti.
Ma in che modo questa caratteristica che potremmo definire per certi versi interna all’individuo, intrapsichica, è collegata al nostro mondo di esperienze relazionali, attuali e passate?
Quello di validazione è un bisogno relazionale fondamentale, tutti nella vita abbiamo bisogno di sentirci “riconosciuti” e “confermati” nel nostro modo di leggere la realtà. Accade frequentemente in moltissime situazioni, anche quotidiane. Accade cioè tutte le volte che sentiamo che l’altro ci restituisce la legittimità delle nostre emozioni.
Viene sperimentato in esperienze relazionali in cui ci si sente ascoltati, si percepisce una buona vicinanza emotiva e l’altro in qualche modo “conferma” la nostra esperienza interna, il nostro universo di significati.
Tutto ciò, naturalmente, è attivo sin dalla nostra infanzia, quando la relazione passa in maniera privilegiata attraverso il legame con le nostre figure di riferimento. E’ quello, infatti, il contesto d’elezione in cui iniziamo a ricevere (o meno) un riconoscimento e una giusta restituzione di competenza. I genitori offrendo risposte validanti appagano, quindi, il bisogno del bambino di valorizzazione del proprio modo soggettivo di sentire, di pensare, di attribuire significati. A ciò si aggiungono, con il tempo, tutte le altre esperienze relazionali che nella vita andiamo sperimentando, anche da adulti.
Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti validati e di avere una percezione positiva di noi stessi. Abbiamo la necessità di sentirci capaci, forti, affidabili. Quando la percezione di noi stessi si arricchisce di negatività personale, diventa tutto molto più faticoso, innanzi tutto su un piano cognitivo, ma poi anche su un piano emotivo e comportamentale.
Ricordiamoci sempre che il nostro modo di vedere le cose non è una verità assoluta, è appunto il “nostro” modo, costruzione che parte da noi stessi, dalla nostra sfera emotiva, dal nostro bagaglio di esperienze, dal nostro modo di essere. E deve rimanere per noi prezioso e importante, se non altro come punto di partenza per poter esplorare, ipotizzare, osservare e riflettere, incontrare l’altro, affiancare nuove visioni.
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Spazi vuoti – L’arte dell’attesa
Nel mio lavoro da psicoterapeuta mi capita spesso di trovarmi di fronte a situazioni emotivamente cariche di dubbio, di sofferenza, di crisi, che se da una parte richiamano l’idea dell’immobilità, del circolo vizioso che si ripete sempre identico e statico, dall’altra paradossalmente trasmettono il vissuto dell’urgenza del movimento, del bisogno della risoluzione immediata, della necessità del cambiamento.
Questo mi ha portato a ragionare su quanto alle volte possa essere faticoso mettersi in una posizione d’attesa, aspettare i tempi necessari per costruire; mi sono interrogata su quale sia il modo con cui di ognuno di noi nella quotidianità si relaziona con gli “spazi vuoti”.
Ti capita, durante la giornata, di entrare in contatto con dei momenti in cui l’unica cosa da fare è attendere? Come gestisci situazioni di questo tipo? Tendi a riempirle di “azioni”, di tentate soluzioni, di movimento? Oppure ti concedi di avere nella tua mente un angolino adibito a “zona relax” per essere comodo mentre li abiti?
Tutti noi aspettiamo qualcosa. C’è chi aspetta l’autobus per tornare a casa; c’è chi aspetta di sentirsi pronto; c’è chi aspetta una partenza; c’è chi aspetta il confronto con qualcuno; c’è chi aspetta un bambino; c’è chi aspetta di maturare una scelta; c’è chi aspetta che sia qualcun altro a maturarla; c’è chi aspetta che la pasta sia pronta.
E’ quindi evidente come questo discorso possa riguardare molti e diversi aspetti della nostra vita e di conseguenza, essere collocato a differenti livelli.
Racconta della quotidianità, riferendosi al modo in cui viviamo le “pause” tra un’esperienza e l’altra; parla del nostro modo di stare a contatto con la variabile “attesa” quando siamo alle prese con la costruzione di un progetto, ad esempio lavorativo; si riferisce ai vissuti che nascono in noi quando ci muoviamo nelle innumerevoli dinamiche relazionali che sono legate in qualche modo ad una “attesa”. Ma parla anche della fila al supermercato e dell’attesa dal medico.
Quale tipo di vissuto fa capolino dentro di te quando hai a che fare con uno spazio vuoto, che sia il traffico, la durata del viaggio, il tempo che ti separa da qualcosa di importante?
A volte è faticoso essere in un tempo che appare per certi versi “sospeso”, in cui è necessario tollerare vissuti ambivalenti, quote di “ignoto”, di non conosciuto, che vanno a creare realtà in divenire, in costruzione quindi incomplete, spezzettate, come tante tessere di un mosaico ancora da collocare.
Forse anche per questo alcune persone si affannano seguendo un ritmo convulso, dove le cose che si vorrebbero fare diventano molte di più del tempo che poi in realtà si ha a disposizione.
Qualche volta mi è capitato di sentir dire: “ci vorrebbe una giornata più lunga, 24 ore non bastano!”.
Spesso la nostra stessa giornata è articolata all’insegna dell’avere fretta, dell’efficienza immediata, di ritmi frenetici. Un po’ è un costrutto del nostro tempo, in cui “tutto è possibile”, tutto è “disponibile”, tutto è “alla portata di tutti”; per ogni tipo di cosa sembra palesarsi una “soluzione immediata”: un farmaco per dimagrire, un abito nuovo per essere più belli, un messaggio che arriva istantaneamente e ci mostri le sue belle spunte blu… va bene, sappiamo che è stato letto; quali reazioni automatiche fa nascere in noi la condizione di incertezza legata all’attesa della risposta, quell’ignoto che c’è fra noi ed una certezza?
Spesso essere sempre operativi ci fa sentire “efficienti”, “produttivi”, sicuri. Al contrario, attendere ci sembra una grande perdita di tempo!
Alcune volte può capitare che questa idea di fretta, la sensazione di doversi sbrigare, pervada anche aspetti importanti e delicati della nostra vita. Come viviamo quei momenti legati ad esempio, alla relazione con l’altro, quando ci rendiamo conto di avere tempi diversi di gestire un’attività, di programmare un’esperienza o di maturare una scelta?
Non sempre il nostro tempo psicologico coincide con quello dell’altra persona e questa mancata “sincronia” produce, alcune volte, vissuti negativi difficilmente tollerabili.
Ti è mai capitato? Come ti sei comportato? Sei riuscito a tollerare questa “discrepanza” o ti sei lasciato sedurre dalla tentazione di venirne fuori con rapidità?
Certo, il “vivere di corsa” non è necessariamente un problema, ritengo lo possa diventare in alcune situazioni:
nel momento in cui iniziamo a percepire quella modalità come la nostra unica alternativa possibile;
quando sentiamo il bisogno di rallentare, ma non ci riusciamo (pena il fare capolino di vissuti negativi);
quando non riusciamo a concepire la possibilità di velocità differenti rispetto alle diverse situazioni che ci troviamo ad affrontare e rispetto alle differenti fasi della vita.
Sempre all’interno di questa mia riflessione mi domando se non ci sia qualcosa che rischiamo di perdere con questo nostro bisogno di “riempire”.
Perché alcune volte può essere importante “attendere”?
Intanto mi viene in mente che vivere quell’ignoto ci permette di porci delle domande, di attivare una riflessione, sviluppare un pensiero. Consente anche di dare spazio alle nostre intuizioni, personali e creative, che per venire alla luce, necessitano un contatto con i nostri vissuti.
In secondo luogo ci consente di “pregustare” il risultato, di immaginare quanto possa essere prelibato un cibo che stiamo preparando, un progetto che stiamo costruendo, permettendo un confronto con le nostre aspettative, fantasie, tra la quello che accade e i nostri bisogni, e di comprendere eventualmente cosa modificare per sentirci più in armonia con i nostri obiettivi.
Prenderci del tempo permette anche di acquisire un consapevolezza personale sui vissuti difficili che l’attesa stessa genera in noi: cosa sentiamo? Qual è la spinta che ci porta ad agire? Da cosa deriva? Quali sono le nostre paure?
In ultimo, ma certamente non meno importante, agevola l’attivazione del “desiderio”; cos’è che non abbiamo e invece vorremmo? Come fare per ottenerlo? Aspetto questo che è un motore prezioso, che consente una spinta propulsiva in direzione di una vita, certo alcune volte più lenta, ma su misura per noi!
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