Vado di fretta, non ho più tempo datemi retta…
Diceva Aristotele “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi del tempo libero” ma quando vivi la città capita di ascoltare commenti del tipo: “Oggi tutto di corsa!”, “Sono stanchissimo!”, “Sono sommerso dal lavoro!” ed anche “Ci vorrebbero giornate di 48 ore per fare tutto ciò che bisogna fare!”. La routine e gli impegni ci invitano ad inserire, uno dietro l’altro, impegni ed appuntamenti. Le agende ce lo ricordano ed anche se vogliamo incontrare il nostro partner, partecipare ad una riunione scuola-genitori o anche andare da soli al cinema bisogna spesso consultare colei che è la nostra segretaria cartacea o virtuale, che ci ricorderà “Oggi ed a quell’ora, probabilmente, non puoi!”. Ed ecco che la mente si arrovella su come poter riuscire ad inserire quell’ennesimo appuntamento, cascato lì tra capo e collo e che non avevamo preso in considerazione e tenuto sotto controllo, con il rischio di scombinarci i piani di un’ennesima organizzazione giornaliera e lavorativa.
Essere un lavoratore oggi, in una società che richiede livelli alti di performance e di obiettivida raggiungere, può essere complesso. Alle volte capita di dover essere produttivi anche fuori dal convenzionale orario di lavoro, magari durante la notte, il weekend o durante le pause.
Ma cosa ci spinge ad essere così performanti? A definire obiettivi, uno dietro l’altro, da raggiungere? Cosa ci spinge ad impiegare anche il nostro tempo libero al lavoro?
Del bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente ne parlava, già nel 1971 un medico e psicologo statunitense, W. E.Oates. Ed oggi, tale bisogno incontrollabile, rientra nel novero delle New Addiction ovvero in tutte quelle che vengono definite le nuove dipendenze. Tale bisogno si differenzia, però, proprio per il fatto che non si ricorre ad un agente esterno, come ad esempio l’uso di sostanze, per ottenere un immediato appagamento, ma invece ad un’attività che fa parte della vita quotidiana di una persona, finalizzata in questo caso ad una remunerazione. Tale bisogno incontrollabile è conosciuto come Workaholism e significa letteralmente “ubriaco di lavoro”. Robinson (1998) la definisce anche come la “dipendenza ben vestita” proprio per il suo carattere pervasivo ma non riconosciuto dalla società.
Ma quindi si può dire che il bisogno di lavorare incessantemente, utilizzando gran parte del nostro tempo libero, rappresenti una dipendenza?
In alcuni casi, sembrerebbe che, la vita intera sia centrata sul lavoro con conseguente e pesante riduzione del tempo libero da dedicare ad altro. Alla fine il tempo libero viene completamente assorbito dal lavoro e le pause, il divertimento, l’affetto e interesse vanno via via scemando. Il lavoro diventerebbe, come scrivono Lavanco & Milio (2006), uno stato d’animo, una via di fuga che libera il soggetto dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri. E l’elemento della vita che generalmente si altera più precocemente, a causa della dipendenza da lavoro, è il contesto familiare. Arrivando a percepire il coniuge come un estraneo tanto da conseguirne un serio deterioramento della sfera affettiva che indurrebbe aridità, apatia, cinismo e indifferenza tra i coniugi. Il lavoro ha, quindi, un effetto anestetizzante sulla sfera emotiva tanto da indurre una sensazione di distacco e di insensibilità. La sofferenza della famiglia è connessa a un sentimento di trascuratezza, solitudine, abbandono e le proteste dichiarate vengono vissute dal dipendente da lavoro come segno di rifiuto e ingratitudine.
Il fenomeno del Workaholism rappresenterebbe un caso al limite ma nella vita di tutti i giorni noi come percepiamo il nostro lavoro, quali significati gli attribuiamo e come influisce nella gestione del nostro tempo libero e/o familiare?
La fretta, l’imprevisto, il controllo, la riorganizzazione son tutti aspetti con i quali bisogna far i conti nella gestione della nostra giornata e mi vengono alla mente alcune frasi:
“…corro veloce per fare in modo che neanche l’imprevisto mi raggiunga!;
“Ho bisogno di sapere già da prima come sarà altrimenti non mi sento tranquilla”;
“Quando le cose son diverse da come me le ero immaginate mi confondo”.
Ma che effetto ci fa tutto questo? Come reagiamo al bisogno di tenere sotto controllo e di gestire anche l’improvviso imprevisto a valle degli impegni lavorativi e familiari?
Quali confini decidiamo di definire tra quella che rappresenterebbe la nostra vita pubblica e quella privata ed anche come si uniscono questi due aspetti?
In fine quale pensiero possiamo fare circa questa modalità di gestire gli eventi del quotidiano? È una modalità che ci fa sentire “comodi”con noi stessi? Ci fa stare bene oppure desideriamo altro?
Orsola Monteleone
Bibliografia:
- Lavanco, G., & Milio, A. (2006). Psicologia della dipendenza dal lavoro. Roma: Astrolabio Ubaldini.
- Oates, W.E. (1971). Confessions of a workaholics: The factsabout work addiction. New York: World.
- Robinson, B.E. (1998). Chained to the desk: A guidebook for workaholics, their parents and children, and the clinicians who treat them. New York: New York University Press.
Psicoterapia familiare
La Psicoterapia familiare è un intervento terapeutico in cui tutti o parte dei membri del nucleo familiare partecipano al trattamento; è particolarmente indicato in una pluralità di situazioni cliniche.
Quando è consigliata la Psicoterapia familiare?
- Uno dei casi è quello in cui il malessere venga espresso da un membro del sistema attraverso un sintomo. La sua difficoltà viene, quindi, analizzata e osservata all’interno del setting di Terapia e diviene spesso la cartina di tornasole dell’organizzazione e della comunicazione all’interno della famiglia;
- Altro caso è quello in cui sia l’intero nucleo familiare a presentare una sofferenza: ad esempio conflittualità, problemi legati alla comunicazione, cambiamenti importanti quali lutti, nascita di figli, trasferimenti o difficoltà legate al ciclo di vita. Qualunque genere di situazione, insomma, possa interferire con il normale processo di sviluppo del nucleo;
- Inoltre, si presenta come un trattamento di elezione nel caso in cui il malessere sia espresso da un soggetto in età evolutiva (infanzia, preadolescenza e adolescenza), in questo caso Il coinvolgimento di tutto il sistema familiare diviene dunque una risorsa molto importante.
Negli anni questo tipo di approccio si è dimostrato molto efficace nella trattamento dei disturbi alimentari, della schizofrenia, del disturbo bipolare, delle vecchie e nuove dipendenze, come ad es. alcolismo, droga, internet e gioco d’azzardo.
Le sedute di norma hanno cadenza quindicinale e vengono condotte da uno o due psicoterapeuti che lavorano in co-terapia.
“C’è una canzone che merita di essere cantata ed è la canzone delle relazioni umane, del legame attraverso il quale le persone si arricchiscono e crescono” – S. Minuchin –
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Cos’è il Mutismo Selettivo?
Cos’è il Mutismo Selettivo?
Si tratta di un disturbo che pur avendo un’ampia diffusione rischia di essere facilmente confuso con aspetti legati alla timidezza o a particolari stili caratteriali.
Di contro, l’aspetto che lo caratterizza è una considerevole componente ansiosa tanto da essere stato inserito, recentemente, dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), nella categoria diagnostica dei Disturbi d’ansia. Tali bambini/ragazzi non presentano, dunque, disfunzioni organiche o un’incapacità correlata allo sviluppo, ma il loro silenzio si configura come un atteggiamento di risposta ad un forte stato emotivo legato all’ansia.
La caratteristica principale del disturbo è legata all’incapacità di parlare in alcuni contesti sociali. Spesso si presenta in “contesti tipo”, che “attivano” quella determinata modalità di risposta: ad esempio l’asilo, la scuola o la presenza di estranei. Di contro, i bambini muto selettivi, presentano una buona loquacità in casa e con persone di fiducia; aspetto quest’ultimo che se da una parte può apparentemente tranquillizzare il genitore, dall’altra può contribuire a creare confusione rispetto alla problematicità del disturbo.
Il trattamento del Mutismo Selettivo prevede un approccio “Multisituazionale”, che comporta un lavoro con il bambino/ragazzo e la famiglia ed inoltre l’attivazione di una rete tra professionisti del settore clinico (Psicologi, Psicoterapeuti; Neuropsichiatri infantili), la scuola o gli altri contesti di riferimento.