
Sportello di consulenza gratuita operatori sanitari covid-19
L’emergenza che stiamo vivendo sollecita tutti ed in modo particolare chi quotidianamente lavora in contesti sanitari. Lavorare a stretto contatto con la sofferenza altrui in una condizione generale di allarme, costretti ad ore continuative di lavoro e lontano dai propri cari può generare stress, irrequietezza, sintomi somatici, sensazione di impotenza nel fronteggiare la situazione.
Il Centro di Psicologia tEssere offre al personale sanitario un servizio gratuito di consulenza on-line. La possibilità di avere uno spazio in cui anche solo portare il proprio vissuto permette di fronteggiare meglio le richieste che la situazione pone.
Per richiedere una consulenza contattaci e valuteremo insieme qual è la proposta più adatta a te!
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Buon Abitare: equilibrio di spazi. Intervista a Laura Di Stefano
“Qui è ieri, è ora, è sempre. E’ la storia di un luogo e di ciò che vi è accaduto nel corso di centinaia di migliaia di anni (…)”
– Qui – Richard Mcguire
“Sentirsi a casa” è un’espressione molto comune, utilizzata per definire una situazione in cui ci si sente comodi, perfettamente a proprio agio.
Proviamo a rifletterci su. A cosa fa riferimento questo modo di dire?
All’avere un posto che ci racconta? Che ci contiene? Che ci ospita? Un luogo in cui troviamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno?
Lo spazio che abitiamo ci rappresenta, parla di noi, è il luogo in cui manifestiamo degli aspetti del nostro essere ecc..
Vi è certamente una relazione di reciprocità tra l’ambiente e l’individuo: il luogo fisico in cui si è immersi modifica e risuona nell’essere umano, così come l’essere umano co-costruisce e determina il proprio ambiente. La modalità in cui questa “relazione” si articola, può avere differenti esiti nell’individuo, in termini di una maggiore o minore sensazione di benessere personale.
In quale modo l’Architetto, nello svolgimento della sua professione, riesce a coniugare e a tenere insieme le caratteristiche fisiche dello spazio, con gli aspetti interni e i bisogni del singolo individuo?
Ne abbiamo parlato con l’Architetto Laura Di Stefano, che nella sua professione si occupa di Consulenza e Progettazione degli Spazi per un Habitat in Equilbrio, e lo fa proprio partendo dall’individuo e dalle sue abitudini e caratteristiche, provando ad integrare e tenere insieme bisogno di trasformazione con quello di stabilità e conservazione, per giungere alla co-costruzione di uno spazio funzionale ed in linea con i propri bisogni: “cambiare le cose iniziando dalle case” RI.SPAZIO.
Per saperne di più, clicca su rispazio.wordpress.com
In cosa consiste il tuo lavoro e come è nata questa idea?
L’idea di RI.SPAZIO è cresciuta e si è definita grazie ai miei stessi clienti: lavorare per progettare un habitat “su misura” mi ha portato ad andare oltre la forma dello spazio per poter individuare quali sono le esigenze profonde da cui nasce il desiderio di trasformazione. Ogni persona è diversa ed ha quindi delle istanze uniche, legate allo stile di vita, alle funzioni che la casa deve poter accogliere ma anche profondamente connesse al senso di CASA, a cosa rappresenta metaforicamente, a quali sono i significati quasi ancestrali che ognuno ricerca nello spazio domestico.
Il percorso necessario per far emergere una Visione del proprio spazio è quindi principalmente basato sull’ascolto, che è guidato da me per individuare tanto i desideri ideali quanto le esigenze pratiche legate al quotidiano, indagando le contraddizioni tra un’immagine -a volte preconcetta- e la propria realtà di vita, nel qui ed ora.
Cosa ti piace del tuo lavoro e quali difficoltà percepisci?
Del mio lavoro sopra ogni cosa mi entusiasma la possibilità di creare una vera e propria relazione di aiuto: chi si rivolge a me è consapevole che la mia offerta non sarà esclusivamente tecnico-progettuale. I miei clienti arrivano pronti per affrontare un percorso che li vede coinvolti ed attivi perché cercano un cambiamento profondo che nella casa, anzi, attraverso la casa possa aiutarli a trasformare abitudini che ritengono malsane o che non vogliono più perpetrare e desiderano trovare armonia ed accoglienza nel proprio habitat domestico.
Per quanto però ognuno si ritenga pronto ad affrontare il cambiamento si ritrova poi a dover intraprendere un percorso faticoso ed, a volte, stravolgente; la maggior parte delle volte la difficoltà più grande sta nel passare dal teorico al pratico: le intenzioni sono le migliori ma quando è necessario trovare un tempo “in più” per svolgere determinati compiti (che io assegno!) ci si ritrova immediatamente a dover cambiare le proprie abitudini. In qualche modo la mia richiesta è quella di iniziare a dedicare del tempo a se stessi attraverso gli spazi di casa e prendere contatto profondo soprattutto con le zone disfunzionali -le “zone oscure”.
E’ un impegno e richiede un tempo che va trovato rinunciando ad altro; spesso i miei clienti fanno resistenza dicendomi che “non hanno tempo”: il modo in cui cerco di far superare questa che spesso è una difesa è sottolineare che la scelta del cambiamento è già stata fatta per un’esigenza urgente e per poter arrivare alla meta è necessario dedicarsi del tempo, diverso e nuovo, per innescare un meccanismo virtuoso.
Cosa significa per te abitare uno spazio?
Su questa domanda si potrebbe dialogare per giorni, viste le molteplici interpretazioni che si possono dare alla parola “abitare”. Il significato che però più corrisponde al mio approccio professionale e progettuale è l’abitare in quanto essere presenti in un luogo consapevolmente, con la capacità di vederlo -e non solo guardarlo-, viverlo -e non solo “usarlo”. Aggiungo che abitare in modo sano significa vivere in armonia ed equilibrio tra luogo, corpo, mente ed emozioni: questo è il motivo per cui per me è imprescindibile nella progettazione di uno spazio architettonico focalizzare l’attenzione sulla persona e sulle esigenze profonde che possano portarla -attraverso il luogo che vive- ad un benessere psico-fisico.
Quali sono per te gli elementi e le qualità che uno spazio dovrebbe avere?
Negli anni, progetto dopo progetto ovvero persona dopo persona, sono arrivata alla conclusione che non si può stigmatizzare formalmente lo spazio. Mi spiego meglio: oltre alle caratteristiche di salubrità che rendono gli spazi ameni -quindi la circolazione dell’aria, l’esposizione e la luce naturale, la dimensione degli ambienti a seconda delle funzioni specifiche- ciò che davvero da qualità ad uno spazio è l’equilibrio tra le esigenze quotidiane e quelle “emotive”, la possibilità di ri-trovarsi in un luogo accogliente perché rispecchia un’identità e risponde al proprio stile di vita.
Quale bisogno secondo te spinge una persona a rivolgersi ad un professionista come te? Hai mai notato se esiste una relazione tra la richiesta e particolari momenti di vita di un cliente?
Come ho già anticipato chi decide di rivolgersi ad un professionista che coinvolge il cliente stesso nella progettazione dello spazio attraverso un percorso di analisi dei bisogni, è chi ha già preso consapevolezza della necessità di occuparsi di sé prima ancora che della casa. Che sia per una ristrutturazione ex novo di un appartamento in cui ancora non si è vissuto o la trasformazione dello spazio in cui già si vive, l’esigenza prioritaria è cercare un supporto, una guida per affrontare un cambiamento: la casa diventa un pretesto per focalizzare l’attenzione sul proprio stile di vita, sulle abitudini che si ha voglia di cambiare, sui desideri profondi e sulle emozioni, sulla propria identità, nel qui ed ora, che attraverso la forma sostanziata della casa possa esprimersi.
Quali sono gli aspetti del cliente che ti incuriosiscono e ti guidano nella proposta da fare?
Prima di arrivare alla formalizzazione di un vero e proprio progetto architettonico costruisco una relazione di fiducia, attraverso la conoscenza reciproca: sono sempre molto chiara sin da subito sulla necessità che il cliente stesso abbia una parte attiva nel processo di cambiamento e spiego quali saranno i passaggi che affronteremo insieme e quali strumenti metto a disposizione; allo stesso tempo, attraverso alcune domande mirate, la scelta di immagini evocative, di atmosfere, colori, cerco di conoscere i miei clienti ma, soprattutto, li conduco verso una consapevolezza che, spesso, li stupisce perché stravolge un’immagine diversa da quella che hanno di sé. E’ anche un percorso di liberazione da una forma che fino a quel momento può essere stata una difesa, un contenitore rassicurante ma non più rispondente alla propria identità, oggi. La proposta progettuale nasce così dal cliente stesso di cui io interpreto i desideri attuali e le necessità: senza rendersene conto il vero artefice è proprio il cliente al quale offro degli strumenti per mettere in luce quanto ha già dentro.
In che modo l’idea che tu hai in mente si incontra con quella del cliente?
Al primo sopralluogo in un appartamento mi faccio raccontare quali sono le difficoltà che si incontrano oggi in casa, quali sono le zone preferite e quelle percepite come disfunzionali; successivamente approfondisco la relazione tra stile di vita ed ambiti, invito a fare luce sulle “zone oscure”, metaforiche e spaziali; contemporaneamente costruisco una Visione Ideale di casa, lasciando la possibilità di immaginare e lasciarsi trasportare dalle atmosfere e dai colori evocativi, tralasciando possibili soluzioni relative alla casa. Questo percorso permette a me di entrare nel mondo e nella vita -in parte- dei miei clienti ed a loro di mettersi in contatto con i propri desiderata ma anche con la realtà contingente. E’ un vero e proprio lavoro di squadra attraverso il quale la costruzione dell’idea nasce dal confronto tra il cliente e me: le proposte progettuali sono elaborate in base a specifiche necessità, che io interpreto, e si affinano fino a trovare l’equilibrio e l’armonia tra desideri, funzionalità ed identità nel progetto definitivo.
Il concetto di “ordine” o “disordine” rappresenta qualcosa nel tuo lavoro? Se si, che cosa ne pensi?
Questo è un tema molto delicato perché è davvero relativo, ossia dipende dalla percezione di ognuno. Più che di ordine o disordine a me piace parlare di funzionalità e valorizzazione delle cose: non è la quantità di oggetti a creare disordine ma il modo in cui vengono accumulati, conservati, stipati fino a non sapere cosa si possiede con il rischio di non usarli più. E’ sempre un argomento delicato ed è anche una delle problematiche principali che mi viene proposta: “c’è confusione, disordine, non so dove mettere tutte le mie cose, vorrei che tutto fosse ordinato, etc…”
Nel percorso in cui guido il cliente, la quantità e la qualità degli oggetti hanno un peso importante; attraverso l’analisi del rapporto con “le cose” emergono molti aspetti legati allo stile di vita: gli oggetti -come gli abiti ed altro- sono spesso accumulati riempiendo quelle che io chiamo le “zone oscure”. Nel dover affrontare una ristrutturazione di un appartamento o un trasloco è necessario entrare in quelle zone ed affrontarle con la consapevolezza che gli oggetti rappresentano altro: episodi particolari, viaggi, legami, il passato; gli oggetti possono evocare momenti di vita eppure, occupando spazi -fisici e mentali-, rischiano di diventare vera e propria “zavorra”.
Quando ciò che si possiede è goduto ed ha un effetto benefico sul proprio umore e non pesa sulla gestione della casa ha senso esaltare gli oggetti, vederli, toccarli, usarli: in questo caso organizzo gli spazi affinché questo sia possibile, compatibilmente con i limiti fisici della casa. Se invece entrando nelle “zone oscure” ci si rende conto che quegli oggetti sono simulacro di un’identità che non ci appartiene più, che la quantità di cose è uno scudo che non permette di incontrare e liberare la propria vita oggi, allora è necessario affrontare una selezione importante. Per aiutare i miei clienti ad affrontare questo faticoso lavoro pongo l’accento sul potere della scelta personale per realizzare la Visione ideale di casa e renderla concreta e vivibile.
Ordine e disordine sono quindi relativi ma equilibrio ed armonia nel vivere il proprio habitat domestico sono concetti tangibili ed in un percorso di cambiamento consapevole diventano la meta da raggiungere.
Nel tuo lavoro ti occupi di apportare un cambiamento concreto nella vita delle persone, come ti senti nel farlo?
Soprattutto, sento una enorme responsabilità. L’attenzione che dedico al percorso che facciamo prima di arrivare alla formalizzazione del progetto è necessaria, proprio per entrare in relazione con i miei clienti ed accompagnarli in quello che è un cambiamento concreto ma faticoso, a volte costoso ed è fondamentale che io sia certa di rispettare i “desiderata” ma anche i limiti dei miei clienti, i loro tempi e la forza di affrontare argomenti che potrebbero essere anche troppo difficili. Quindi cerco di entrare in empatia con i clienti per poterli interpretare al meglio rispettando la loro richiesta, senza fare “di più”, senza forzarli. E questo è l’altro aspetto che mi piace dell’approccio che ho scelto: l’empatia, che fa si che senza giudizio io possa conoscere delle realtà diverse dalla mia ed offrirmi come strumento, come guida per un percorso da fare insieme.
Quali reazioni noti nei tuoi clienti alla consegna del lavoro? Ci sono degli episodi che ti va di raccontare?
Poiché il processo per arrivare alla conclusione del lavoro è partecipato, non rivela sorprese immediate: è già attraverso il tempo in cui lavoriamo, fianco a fianco, che i clienti scoprono parti nuove di sé, fino a quel momento, nascoste o che emergono e vengono dichiarate trasformandosi in un modus vivendi finalmente coerente con la propria identità. La casa trasformata assume di conseguenza una nuova formalità spaziale che accoglie chi ci vive in equilibrio ed armonia, rispondendo alle funzioni quotidiane e, soprattutto, alle emozioni ed alle atmosfere che, con consapevolezza ed in pieno contatto con se stessi nel “qui ed ora”, si è arrivati ad esprimere.
Per me la gratificazione più grande è sentire i miei clienti dopo un po’ di mesi ed avere la conferma di quanto la loro casa gli sia vicina e gli corrisponda e, soprattutto, quando mi raccontano di aver compreso quale sia il modo giusto per curarla nel profondo ossia curare se stessi attraverso la casa.
Condivido volentieri un momento particolare del percorso di consulenza: c’è una vera e propria scintilla, un’illuminazione che cambia il punto di vista sulla casa che fino a quel punto si aveva. Questo accade perché, entrando in contatto con i propri bisogni, le fragilità ed i desideri, ci si inizia già a trasformare, cadono dei veli, cambia la prospettiva e la fiducia nella possibilità di essere artefice del cambiamento.
Per me è davvero emozionante vedere come i miei clienti si animino e si illuminino nel percepire la portata rivoluzionante del proprio potere di scelta.
Ogni volta ho la sensazione di essere come una guida di viaggio che conduce a luoghi ancora inesplorati e di cui, insieme al cliente, facciamo la scoperta: capita ogni volta che, in un particolare momento, è come se ci affacciassimo verso un nuovo panorama mozzafiato, bello ed inaspettato, eppure così vicino alla propria identità!
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La casa tra mondo interno ed esterno. Psicologia dell’abitare.
In psicoterapia, il pensiero sullo “spazio” inteso come luogo in cui si condivide, come “contenitore” ed anche come “cornice”, acquista notevole importanza, proprio perché al suo interno si avvia e prende forma il lavoro terapeutico. Il “luogo che accoglie” diventa, pertanto, il contesto spazio-temporale al cui interno si sviluppa un percorso evolutivo, contenendo e organizzando la relazione tra terapeuta e paziente.
Da ciò, lo “spazio fisico” e lo “spazio interno” si intrecciano, diventano un tutt’uno, permettendo l’espressione ed il contenimento di dinamiche relazionali, cognitive ed emotive.
Anche nelle storie delle persone che incontro in stanza di terapia ci sono spesso riferimenti ai luoghi della loro vita, vicini o lontani, intrisi di ricordi, di comportamenti, di relazioni, insomma…della vita che scorre. Questi luoghi diventano alle volte delle porte di accesso al mondo interno degli esseri umani, alle varie parti del loro Sé, al loro universo relazionale.
Ricordo, in particolare, una stanza con al suo interno una libreria, ritenuta inavvicinabile perché generatrice di ansie, che ha accompagnato l’intero percorso terapeutico di una donna, diventando per lei testimonianza nel reale e, al tempo stesso, metafora, dapprima della sua paura e confusione, della sua difficoltà di accesso ad alcune parti di sé e, successivamente, della sua evoluzione interna, del suo “cambiamento”. Cambiamento che è diventato interno quanto esterno, consentendole in questo caso un accesso “reale” a quella stanza e a quella libreria, per riorganizzarle, abbellirle, ricostruirle, trasformarle in qualcosa di nuovo, naturalmente senza poter prescindere dal materiale originario.
I luoghi sono spesso presenti anche nei sogni che le persone portano.
Ricordo ad esempio un sogno ricorrente di un uomo, in un periodo per lui di importante lavoro su di sé: il contenuto era legato alla improvvisa scoperta della presenza nella sua casa di una “stanza nuova”, grande, mai vista prima. Una stanza che gli era molto utile, ma che non sapeva di avere…
Emerge da questi esempi come l’ambiente esterno, fisico, nel quale siamo immersi e i nostri aspetti interni, mentali, tendano a confondersi. L’ambiente abitativo, porta con sé perlomeno una duplice valenza, da una parte legata al concreto, alle abitudini di vita, al suo essere un oggetto del reale (la cui conquista, inoltre, porta spesso con sé importanti sacrifici)… dall’altra al suo essere entità simbolica, metafora (T. Filighera, A. Micalizzi, 2018).
Questo continuo andirivieni tra interno ed esterno, luoghi fisici e mentali, mi ha indotto a riflettere sulla relazione esistente fra il benessere individuale e l’ambiente abitativo.
Che tipo di rapporto esiste tra l’essere umano e l’ambiente che egli occupa?
Il concetto dell’abitare, non può essere considerato da un punto di vista meramente statico, fisico, in quanto psicologicamente vissuto pertanto dinamico, fluttuante, in movimento. E’ un legame forte quello tra la casa e colui che la abita: l’individuo certamente modifica il suo ambiente in base ai propri vissuti, alle proprie emozioni, ai propri bisogni, ma è innegabile come la qualità dell’ambiente stesso abbia un effetto sull’individuo, in termini di maggiore o minore benessere. Inoltre, nella percezione di un ambiente, la persona non è qualcosa di esterno e scollegato, ma ne è parte integrante, in quanto tra i due esiste una interazione costante (Baroni, 1998).
Chi vive un ambiente, in quel contesto si definisce, esprime e manifesta parti di sé, attitudini, preferenze, stili di vita e ciò conferisce un’identità a quel luogo, in un gioco di rispecchiamenti con l’identità della persona (Proshansky et al, 1983).
Tutti abbiamo bisogno che il nostro spazio parli di noi, ci rappresenti, che racconti i nostri vissuti, le nostre narrazioni individuali e familiari, e ciò ci aiuta nel mantenimento di una dimensione storica personale. L’identità di un luogo è, infatti, strettamente legata ai nostri ricordi, in quanto in essa confluiscono emozioni, relazioni, bisogni psichici, memorie di altri luoghi. Il rapporto positivo con l’ambiente è, dunque, un aspetto importante nell’identità individuale (Baroni, 1998).
L’ambiente domestico è anche un prezioso “contenitore” (De Marco, 2015), in quanto racchiude in sé tutto ciò che al suo interno avviene. Pensiamo un attimo alle dinamiche relazionali di una famiglia: rituali, incontri, saluti e distacchi, festeggiamenti e tristezze. Un flusso relazionale ed emotivo continuo che all’interno della casa, trova spazio, si manifesta.
Altra funzione che l’ambiente domestico svolge, tanto reale quanto simbolica, è quella di definire un “confine” verso l’esterno, verso tutto quello che chiudendo la porta d’ingresso si lascia fuori. Indica un limite tra ciò che si accetta di fare entrare e tutto quello che all’interno di quel confine non trova uno spazio, una collocazione. Questo significa “rifugio”, protezione, luogo in cui soddisfare i propri bisogni di sicurezza e appartenenza. Attraverso l’esperienza abitativa ognuno di noi declina, in base ai propri costrutti, la dicotomia dentro/fuori, accoglienza/chiusura.
Tutti questi aspetti ci suggeriscono come sia importante, per il benessere di una persona, avere un rapporto positivo e soddisfacente con il proprio spazio abitativo.
La psicologia ambientale si occupa proprio di quel particolare rapporto che lega l’individuo al suo spazio fisico: relazione certamente circolare, in cui il luogo fisico in cui si è immersi modifica e condiziona l’essere umano, così come l’essere umano modifica e co-costruisce il proprio ambiente.
Psicologia e architettura, per quanto possano sembrare discipline concettualmente distanti fra di loro, in realtà operano su un terreno di continuità, in quanto gli aspetti fisici, oggettivi dell’abitare, appaiono intrecciati con dinamiche più propriamente psichiche, connesse ad esempio al concetto di “attaccamento”, “appartenenza”, “bisogni personali” , vissuti emotivi che un certo posto evoca, ecc.
Il “buon abitare”, così come la sensazione di benessere personale che si prova nel proprio ambiente, passa anche da un gioco di continuo rispecchiamento, tra gli aspetti oggettivi e concreti della propria casa e le proprie parti di sé.
Nel progettare o anche solo nel fantasticare dei cambiamenti rispetto alla propria casa, sarebbe dunque utile avere in testa oltre ad un modello fisico di riferimento dell’ambiente sul quale si opera, anche un modello di natura “mentale”, con un approccio aperto e multidisciplinare (Arielli, 2003).
Tutto ciò consentirebbe una sensazione di maggiore benessere personale, con l’obiettivo di considerare lo spazio non solo come un ambiente da occupare, ma come un’opportunità per “essere” e sentirsi in armonia.
BIBLIOGRAFIA
- Arielli E. (2003) “Pensiero e Progettazione” Mondadori editore, Milano;
- Baroni M.R. (1998) “Psicologia ambientale” Il Mulino, Bologna
- De Marco S.M. (2015) “Psicologia e architettura: studio multidisciplinare dell’ambiente” Aletti Editore;
- Filighera T., Micalizzi A. (2018) “Psicologia dell’abitare. Marketing, architettura e neuroscienze per lo sviluppo di modelli abitativi” Milano, Franco Angeli.
- Proshansky H.M. et al (1983) “Place-identity: phisical world socialization of the self”, Journal of environmental Psychology, 3, 57/83;
- Robinson S., Pallasmaa J. (2015) “Mind in Architecture: Neuroscience Embodiment, at the future of design” The MIT press, London;
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La cura non è un fatto privato
La vita quotidiana è sempre più strutturata in modo che ogni momento a disposizione possa essere sfruttato nel migliore dei modi, perfino il tempo libero ha uno spazio specifico per essere utilizzato al meglio; non sono da meno gli spostamenti, solitamente impiegati per ricapitolare i vari impegni o i pensieri che girano in testa, oppure per scorrere i messaggi sul nostro smartphone. In tutto ciò passa in secondo piano il contesto in cui ci muoviamo, forse anche per la convinzione che non ci sia nulla che possa sorprenderci. Su questo sfondo si affacciano una serie di piccole “innovazioni” che sembrano quasi in contrasto con la frenesia della quotidianità: c’è chi si adopera per far rifiorire aiuole abbandonate; chi cambia gli scorci riempiendo di opere d’arte le facciate di palazzi; persone che riorganizzano spazi giochi per bambini ed altre che danno nuova vita a biblioteche e vecchie strutture in disuso.
Viene spontaneo domandarsi come sia possibile che atteggiamenti così diversi possano convivere. Ci si potrebbe chiedere quali siano i meccanismi che muovono chi riesce a trovare spazio, tempo ed energie da investire per realizzare queste piccole grandi opere. È difficile trovare una risposta. Ad una prima lettura potremmo ipotizzare che a fare la differenza siano determinate caratteristiche personali: supporre, quindi, che ci siano individui dediti prevalentemente alle proprie vite ed individui maggiormente interessati agli altri; riducendo tutto alla semplice considerazione che ci si divida in “egoisti” ed “altruisti”.
Questa osservazione presuppone, però, che i comportamenti prosociali siano completamente disinteressati e privi di risvolti personali. Su quest’aspetto la filosofia ha dibattuto a lungo e sono numerose le posizioni che vedono dietro questo tipo di atteggiamento la possibilità di trarne dei benefici, anche solo a livello di immagine personale.
In effetti, l’essere altruisti, comporta dei vantaggi, neanche troppo nascosti:
• Potersi prendere cura, come in questo caso, di spazi comuni permette di sentirsi parte di qualcosa, di un progetto più ampio e di una comunità. Cosa rara in un momento storico in cui si prediligono i legami virtuali a quelli territoriali, dove l’essere vicini non è più un fattore primario per costruire legami.
• Partecipare alla realizzazione di qualcosa significa anche confrontarsi con altre persone, condividere la fatica e le soddisfazioni, mettere a disposizione le proprie conoscenze ed essere disposti ad apprenderne di nuove; in altre parole recuperando e costruendo cose si recuperano e costruiscono anche relazioni.
• L’aspettativa della reciprocità: alla base dell’evoluzione dell’uomo sembra ci siano stati sia comportamenti competitivi che cooperativi; non sono sopravvissuti, infatti, solo gli uomini più forti, ma anche quelli che hanno saputo condividere e cooperare. Questa capacità si fonda sulla fiducia che, quanto fatto per il gruppo, verrà fatto anche dagli altri o che, in caso di necessità, si avrà in cambio l’aiuto che si è offerto.
• Sentire di aver preso parte alla realizzazione di qualcosa, contribuendo in prima persona, migliora il senso di autoefficacia (self efficacy), ci fa sentire capaci, responsabili e reali protagonisti di un progetto.
• Migliora la qualità della vita: riqualificare e trasformare spazi, valorizzandone la bellezza, significa anche dare una valenza diversa all’immagine di sé; vivere in un contesto degradato finisce per influenzare negativamente anche la propria immagine, talvolta confermando la difficoltà ad apportare cambiamenti personali. Un luogo bello, invece, incoraggia a prendersene cura, incrementando il senso di responsabilità individuale e favorendo lo sviluppo di una maggiore attenzione verso sé stessi.
• Migliora lo stato di salute. Esiste una corposa mole di studi che sostiene come l’altruismo, anche la sola attenzione verso l’altro, migliori lo stato di salute, riducendo l’impatto che lo stress ha sull’individuo. A questo filone se ne affianca un altro, altrettanto sostanzioso, che reputa l’esposizione al bello benefico per la persona, apportando delle modifiche a livello biochimico, favorendo la secrezione di ormoni come l’ossitocina, deputati al benessere ed all’appagamento.
• È un comportamento fonte d’ispirazione per gli altri: scegliere di intraprendere azioni insolite, originali, fondate su valide argomentazioni e nobili principi fa sì che anche un piccolo gruppo possa acquisire autorevolezza ed influenzare la maggioranza; può addirittura spingere qualcuno a cambiare il modo di vedere le cose o persino ad aderire a qualche progetto.
Non resta quindi che guardarci intorno per cogliere qualche spunto che ci possa incuriosire e, chissà, forse anche farci diventare parte attiva di qualche progetto che vede come protagonista il posto che abitiamo.
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Ordine e caos: tra crisi ed opportunità
“Il caos è solo ordine che attende di essere decifrato”
Mi viene in mente questa frase di José Saramago dopo aver conosciuto Federica in stanza di terapia, una giovane ragazza di 25 anni che ha appena terminato gli studi universitari.
“Sono sempre stata una persona determinata, dalle idee chiare ma adesso mi sento solo confusa: mi sembra di vivere in un grande caos in cui non so dove andare!” è quanto mi dice nel nostro primo incontro.
A chi non è mai capitato di avere un vissuto simile?
A chi non è mai capitato di fermarsi un momento nella vita, e non sapere da che parte andare?
Che caos terribile!
Confusione, senso di smarrimento, sensazione di aver perso un equilibrio, ma anche paura, immobilità, insicurezza…questi sono alcuni dei vissuti emotivi che ci accompagnano nei momenti di “grande caos” – come li definisce Federica – e che possono generare malessere, fino ad innescare a volte dei momenti di crisi davanti ai quali ci si sente privi di risorse.
Frequentemente sono momenti legati a passaggi di vita e di crescita importanti: la fine del percorso universitario, l’inizio di un nuovo lavoro, un trasferimento in una città diversa…fasi e situazioni in cui si deve “abbandonare” un equilibrio ed un assetto precedente per costruire un “ordine” totalmente inedito.
In questo scenario, vissuti di confusione, incertezza e paura sono fisiologici e non sempre del tutto negativi!
Il caos: una grande opportunità!
I momenti di confusione possono rappresentare si dei momenti di “rottura” rispetto al passato, ma anche degli straordinari momenti di crescita, dei veri e propri “salti evolutivi”.
È importante, innanzitutto, avere il coraggio di liberarsi dalla pressione – interna e/o esterna – di trovare una soluzione immediata, che spesso ci spinge verso scelte e direzioni poco in sintonia con quello che siamo e che desideriamo essere.
Concedersi la possibilità di fermarsi significa darsi una preziosa occasione di ascolto di se stessi e delle proprie emozioni, per riuscire a cogliere e definire con maggiore chiarezza i propri bisogni e desideri: in un certo senso, “ristabilire” il proprio baricentro.
È grazie a questo ascolto che è possibile dare spazio alle proprie risorse e alla propria creatività che permette di formulare un proprio personale “ordine”, in cui elementi della propria esperienza passata si intrecciano con il nuovo, giungendo ad una maggiore e più chiara definizione di sé.
Perché in fondo, come sosteneva Nietzsche, “bisogna avere un caos dentro di sé per dare vita ad una stella danzante”.

Di bisogni e relazioni
Ti è mai capitato di dubitare di te stesso? Hai mai avuto la sensazione di non riuscire a comprendere le cose o di non essere capace di valutarle in un modo sufficientemente affidabile? Hai mai evitato di dire la tua, perché tu per primo senti da qualche parte dentro di te, che si tratta di qualcosa di “poco importante”, poco intelligente, poco valido?
“Vorrei dire una cosa ma tanto non ha senso, mi sembra stupida…”
E’ una frase piuttosto comune. Ti è mai capitato di ascoltarla o di pronunciarla?
Spesso, mi capita di imbattermi in espressioni di questo tipo in terapia, magari prima di una rivelazione rispetto ad un pensiero, un’emozione, un vissuto scaturito da un certo evento.
Eppure questa espressione, per quanto comune e banale, potrebbe riflettere delle convinzioni rispetto a Sé, schemi di pensiero e di emozioni che si attivano sotto pelle.
Cos’è che porta alcune persone ad utilizzare espressioni di questo tipo?
Si tratta della sensazione di sentire alcune cose in un modo “non corretto” o non proprio affidabile, che non permette di auto- attribuirsi il buon riconoscimento di una importante “competenza”, quella di leggere in maniera appropriata le diverse situazioni. Racconta spesso di una condizione che la persona si è trovata a sperimentare: quella del dubbio sulle proprie percezioni, della perplessità rispetto all’affidabilità dei propri vissuti, dell’insicurezza personale.
“Avrò capito bene?”, oppure “Sicuramente è stata solo una mia impressione!” “Sarà proprio così? Ma no, impossibile, devo aver capito male!”.
La sensazione può essere quella della confusione, dell’impressione che manchino le capacità di decodifica della realtà, oppure quella del bisogno di cercare esternamente una conferma alle proprie impressioni, magari contrastanti, che faticano a trovare uno spazio interno di convivenza.
Alcune volte, naturalmente, può capitare a chiunque di sperimentare un certo vissuto ma, allo stesso tempo, di non fidarsi completamente delle proprie percezioni. Chiaramente, un fatto di questo tipo può avere diverse spiegazioni. Può alle volte significare, semplicemente, un volersi prendere del tempo per valutare perché, ad esempio, alcuni aspetti richiedono una maggiore riflessione; può essere dovuto alla fatica che si fa, in alcune circostanze, nel tollerare e tenere insieme dei vissuti interni ambivalenti, oppure ancora, può essere una scelta consapevole, uno spazio che si sceglie di prendere nel tentativo di considerare punti di vista alternativi.
La sensazione di insicurezza non è di per sé dannosa, può capitare di farne esperienza e in piccole dosi può anche essere utile e funzionale. Tuttavia, quando investe molte aree della propria vita e persiste nel tempo, rischia di diventare dannosa e limitante, portando con sé il rischio di inibire scelte, decisioni, possibilità. Per qualcuno questo senso di incapacità che porta a screditare i propri stessi vissuti, può diventare un tasto dolente, una specie di schema che si attiva e che porta a mettere costantemente in discussione l’adeguatezza delle proprie emozioni, delle proprie impressioni o dei propri pensieri. La persona in questo caso ha delle percezioni, delle proprie chiavi di lettura, dei pensieri su alcune situazioni, ma non si riconosce la possibilità di fidarsi di sé. Spesso allora ci si rivolge verso l’esterno, nel tentativo di cercare una conferma alla legittimità dei propri vissuti.
Ma in che modo questa caratteristica che potremmo definire per certi versi interna all’individuo, intrapsichica, è collegata al nostro mondo di esperienze relazionali, attuali e passate?
Quello di validazione è un bisogno relazionale fondamentale, tutti nella vita abbiamo bisogno di sentirci “riconosciuti” e “confermati” nel nostro modo di leggere la realtà. Accade frequentemente in moltissime situazioni, anche quotidiane. Accade cioè tutte le volte che sentiamo che l’altro ci restituisce la legittimità delle nostre emozioni.
Viene sperimentato in esperienze relazionali in cui ci si sente ascoltati, si percepisce una buona vicinanza emotiva e l’altro in qualche modo “conferma” la nostra esperienza interna, il nostro universo di significati.
Tutto ciò, naturalmente, è attivo sin dalla nostra infanzia, quando la relazione passa in maniera privilegiata attraverso il legame con le nostre figure di riferimento. E’ quello, infatti, il contesto d’elezione in cui iniziamo a ricevere (o meno) un riconoscimento e una giusta restituzione di competenza. I genitori offrendo risposte validanti appagano, quindi, il bisogno del bambino di valorizzazione del proprio modo soggettivo di sentire, di pensare, di attribuire significati. A ciò si aggiungono, con il tempo, tutte le altre esperienze relazionali che nella vita andiamo sperimentando, anche da adulti.
Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti validati e di avere una percezione positiva di noi stessi. Abbiamo la necessità di sentirci capaci, forti, affidabili. Quando la percezione di noi stessi si arricchisce di negatività personale, diventa tutto molto più faticoso, innanzi tutto su un piano cognitivo, ma poi anche su un piano emotivo e comportamentale.
Ricordiamoci sempre che il nostro modo di vedere le cose non è una verità assoluta, è appunto il “nostro” modo, costruzione che parte da noi stessi, dalla nostra sfera emotiva, dal nostro bagaglio di esperienze, dal nostro modo di essere. E deve rimanere per noi prezioso e importante, se non altro come punto di partenza per poter esplorare, ipotizzare, osservare e riflettere, incontrare l’altro, affiancare nuove visioni.
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Fuorisede: in equilibrio continuo tra perdite e nuove conquiste
Il termine “fuorisede” può richiamare alla mente tematiche diverse: quella del viaggio, dell’alternarsi tra due città per mantenere le proprie origini ed investire sul proprio futuro; quella della libertà e della miriade di nuove opportunità a disposizione; quella del caos e dello smarrimento dato dal trovarsi catapultati in un posto nuovo con nuove regole e richieste; quella della responsabilità che improvvisamente si è costretti ad assumersi per far fronte agli obblighi del percorso di studi e della vita quotidiana; quella della ricerca di sé, frutto delle sfide quotidiane che questo cambiamento impone e dal confronto con i propri limiti e possibilità.
Trasferirsi in una nuova città per intraprendere un percorso di studi, è una scelta complessa, che porta con sé, in misura diversa per ciascuno, tutti questi aspetti e forse anche altri. Si tratta di una decisione importante, dettata dalla mancanza nel proprio paese, di possibilità adeguate a soddisfare i propri desideri, o dalla costatazione che sia l’unica reale alternativa per costruirsi un futuro o dalla necessità di allontanarsi da casa, dagli obblighi e dalle pressioni del proprio contesto di appartenenza, per sentirsi liberi di vivere la propria vita.
Al di là di quale motivazione ci sia alla base, diventare studente fuorisede implica una serie di cambiamenti, sia interni che esterni, che rendono questa condizione molto delicata.
Scegliere di cambiare città comporta dunque il doversi confrontare con temi importanti, come la separazione dai familiari e dagli amici, la realizzazione di sé, lo sviluppo di una propria indipendenza e, la sua contro parte, la capacità di affrontare il senso di solitudine. Il trasferimento, anche quando, nel migliore dei casi, è sostenuto dalle persone care e da una forte motivazione, viene affrontato con vissuti contrastanti che possono essere ricondotti al “dolore della perdita di ciò che si lascia e la speranza-fiducia di ciò che si acquista” (Scabini, Cigoli, 2000). Molto spesso si lascia prevalere uno dei due aspetti, dedicando tutte le energie nella costruzione della nuova vita o dando spazio esclusivamente ai sentimenti legati al distacco. Si tratta di due comportamenti che escludono vicendevolmente il passato o il futuro e che possono, in modo diverso, comportare dei disagi.
Un rischio a cui molte volte si va incontro, è quello di facilitare la separazione negando l’intensità del legame con le proprie radici, cambiando bruscamente la qualità della relazione con le persone di riferimento, procurando così, una frattura nei processi di appartenenza al nucleo familiare. La distanza fisica può, dunque, affiancarsi ad un allontanamento interiore, che spesso si realizza fingendo, a se stessi e agli altri, una completa autonomia nell’affrontare e gestire al meglio ogni situazione, senza aver bisogno di nessuno. In realtà questo atteggiamento nasconde una profonda fragilità che può venir fuori in forme diverse.
Meno celata, invece, la sofferenza di chi vive il trasferimento nel solo aspetto del distacco. I sentimenti suscitati dalla perdita della “vita precedente” non permettono di intravedere quanto si possa ricevere dall’esperienza che si sta vivendo nel presente.
La mancanza dei propri affetti può minare la capacità di ricostruirsi una quotidianità senza la presenza dei propri punti fermi. Inoltre può essere difficile apportare dei cambiamenti a livello personale per rispondere alle richieste di questo fase di vita. Potrebbe essere necessario assumersi delle responsabilità che fino a quel momento erano viste come lontane e la capacità di essere autonomi, di “riuscire a farcela da soli”, dovrebbe subire un rapido sviluppo. Affrettare i tempi dei consueti passaggi evolutivi può, però, non essere una scelta possibile in quel momento perché percepita come prematura. Tutto ciò rende faticoso l’inserimento nel nuovo contesto e le richieste dettate dal trasferimento possono essere vissute come troppo difficili. Gli ostacoli incontrati, talvolta, comportano la messa in discussione della scelta fatta ed anche delle proprie capacità.
Gli studenti si trovano, quindi, a vivere un momento molto complesso della propria vita, in cui è indispensabile riuscire a tenere insieme passato, presente e futuro.
Dare spazio ai propri vissuti, può facilitare il processo di adattamento alla nuova realtà. In particolare potrebbe essere utile esplorare le proprie paure ed i propri conflitti per affrontare il cambiamento con maggiore consapevolezza. Anche cercare di mantenere una continuità tra le esperienze passate e quelle attuali può aiutare a concentrarsi meno sulle differenze e maggiormente sui propri desideri ed i propri bisogni. Ad esempio può essere utile continuare ad alimentare le proprie passioni o conservare alcune abitudini personali.
Si tratta sicuramente di un momento molto delicato, in cui desideri e paure si alternano costantemente. Averli chiari e saperli distinguere, può aiutare a vivere il cambiamento non come una minaccia ma come un’occasione di crescita, in cui poter scoprire risorse personali e nuovi bisogni.
Bibliografia
Scabini E., Cigoli V. (2000). Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Milano: Raffaello Cortina.
Bowen M. (1979). Dalla famiglia all’individuo. Roma: Astrolabio.

Intelligenza emotiva: una chiave per il futuro!
Come dimostrato da numerose ricerche, i bambini più sereni, più sicuri di sé, migliori a scuola e anche più felici sono quelli con un’intelligenza emotiva più sviluppata. E non solo: sono anche coloro che, da adulti, sapranno affrontare in maniera efficace tutte le difficoltà e le sfide che la vita porrà loro dinanzi. Utilizzando quindi un’espressione di Howard Gardner, si può dire senza ombra di dubbio che l’intelligenza emotiva sia una vera e propria “chiave per il futuro”!
Intelligenti emotivi si nasce o si diventa?
Anche su questo le ricerche sono concordi: l’intelligenza emotiva, ovvero la capacità di riconoscere, comprendere utilizzare e gestire in modo consapevole le emozioni proprie ed altrui, – essere insegnata, in famiglia e a scuola.
Secondo gli psicologi dello sviluppo, genitori, insegnanti ed educatori possono rappresentare dei veri e propri “allenatori emotivi”, nel momento in cui si mostrano capaci di parlare dei propri sentimenti, di dare loro un nome e di trovare una soluzione all’emozione negativa. Viceversa, un atteggiamento che sminuisce, rimprovera o non fornisce una guida all’ espressione delle emozioni, impedisce al bambino di instaurare un rapporto sereno con la propria sfera affettiva, esponendolo al rischio di problematiche comportamentali e psicologiche future.
Ma cosa fa concretamente un allenatore emotivo?
Cerca di comprendere la causa dell’emozione
È molto difficile che un bambino riesca ad identificare con precisione la causa del suo stato emotivo: spetta quindi al genitore riuscire a mettersi nei suoi panni per cercare di comprendere quale evento possa essere all’origine della sua emozione (la nascita di un fratellino, il litigio con un amico, l’ingresso alla scuola materna, un insuccesso scolastico…)
Considera ogni emozione negativa come una buona occasione per allenare il proprio figlio e ascoltarlo senza dare giudizi né soluzioni
Davanti alle manifestazioni emotive del bambino, non bisogna arrabbiarsi, spaventarsi e lasciarsi travolgere da emozioni negative…
Sedersi alla sua altezza, parlargli in modo rilassato, dedicargli del tempo, dimostrare di capire cosa prova, senza sminuire, criticare o ignorare le manifestazioni emotive del bambino sono piccole azioni concrete che rimandano al bambino quanto la propria emozione abbia valore e vada accolta ed ascoltata.
Aiuta il bambino a definire le emozioni che prova
Le sensazioni emotive possono risultare confuse, poco chiare, e quindi spaventose per un bambino se non c’è un nome con cui chiamarle. È importante quindi che parole come tristezza, noia, paura, rabbia…entrino a far parte del vocabolario quotidiano: dare un nome alle emozioni ha inoltre un effetto rasserenante sul sistema nervoso e aiuta ad uscire più in fretta dallo stato d turbamento.
Pone dei limiti ai comportamenti sbagliati e aiuta il bambino a trovare da solo una soluzione alternativa
Se da una parte bisogna accogliere l’emozione negativa, dall’altra è necessario far capire al bambino come alcuni comportamenti sono inaccettabili, senza ricorrere ad azioni che possono mortificarlo (urla, punizioni), ma incoraggiandolo a trovare soluzioni alternative, ad esempio con frasi come “capisco che Marco ti ha fatto arrabbiare perché ti ha preso la macchinina, ma non va bene che lo picchi per questo. Cosa potresti fare?”La ricerca di soluzioni alternative accettabili può essere facilitata attraverso un gioco che metta in scena l’accaduto o, per i bambini più grandi, attraverso la stesura di una lista. Può essere utile anche ricordare al bambino situazioni passate simili fronteggiate con successo, o raccontare la propria esperienza in circostanze analoghe.Dopo aver individuato delle soluzioni, bisogna accompagnare il bambino nella scelta della soluzione migliore, aiutandolo ad immaginare come si sentiranno lui e gli altri dopo quel comportamento: “come ti sentiresti dopo aver fatto così?, come si sentirebbero gli altri?”. La scelta del bambino deve essere assolutamente libera: il fallimento offre un importante opportunità per imparare, quando c’è accanto un adulto pronto a sostenere e che incoraggia a sperimentare un’altra alternativa!
Insegnare ai bambini a conoscere, gestire ed utilizzare le proprie emozioni significa equipaggiarli di una competenza che permetterà loro di essere non solo dei bambini e degli adulti più sereni, ma anche più protetti rispetto al rischio di future problematiche psicologiche e comportamentali. Inoltre, offre anche all’adulto una preziosa occasione per continuare ad allenare la propria intelligenza emotiva, in quello scambio arricchente che rende così affascinante l’educazione e la crescita dei più piccoli.
Bibliografia:
– D. Goleman, “L’intelligenza emotiva”, Rizzoli, Milano, 1996
– J. Gottman, J. De Claire, “Intelligenza emotiva per un figlio”, Biblioteca Univ. Rizzoli, Bologna, 2001
– P. Paoletti, “Alla scoperta delle emozioni”, Infinito Edizioni, Milano, 2009

Spazi vuoti – L’arte dell’attesa
Nel mio lavoro da psicoterapeuta mi capita spesso di trovarmi di fronte a situazioni emotivamente cariche di dubbio, di sofferenza, di crisi, che se da una parte richiamano l’idea dell’immobilità, del circolo vizioso che si ripete sempre identico e statico, dall’altra paradossalmente trasmettono il vissuto dell’urgenza del movimento, del bisogno della risoluzione immediata, della necessità del cambiamento.
Questo mi ha portato a ragionare su quanto alle volte possa essere faticoso mettersi in una posizione d’attesa, aspettare i tempi necessari per costruire; mi sono interrogata su quale sia il modo con cui di ognuno di noi nella quotidianità si relaziona con gli “spazi vuoti”.
Ti capita, durante la giornata, di entrare in contatto con dei momenti in cui l’unica cosa da fare è attendere? Come gestisci situazioni di questo tipo? Tendi a riempirle di “azioni”, di tentate soluzioni, di movimento? Oppure ti concedi di avere nella tua mente un angolino adibito a “zona relax” per essere comodo mentre li abiti?
Tutti noi aspettiamo qualcosa. C’è chi aspetta l’autobus per tornare a casa; c’è chi aspetta di sentirsi pronto; c’è chi aspetta una partenza; c’è chi aspetta il confronto con qualcuno; c’è chi aspetta un bambino; c’è chi aspetta di maturare una scelta; c’è chi aspetta che sia qualcun altro a maturarla; c’è chi aspetta che la pasta sia pronta.
E’ quindi evidente come questo discorso possa riguardare molti e diversi aspetti della nostra vita e di conseguenza, essere collocato a differenti livelli.
Racconta della quotidianità, riferendosi al modo in cui viviamo le “pause” tra un’esperienza e l’altra; parla del nostro modo di stare a contatto con la variabile “attesa” quando siamo alle prese con la costruzione di un progetto, ad esempio lavorativo; si riferisce ai vissuti che nascono in noi quando ci muoviamo nelle innumerevoli dinamiche relazionali che sono legate in qualche modo ad una “attesa”. Ma parla anche della fila al supermercato e dell’attesa dal medico.
Quale tipo di vissuto fa capolino dentro di te quando hai a che fare con uno spazio vuoto, che sia il traffico, la durata del viaggio, il tempo che ti separa da qualcosa di importante?
A volte è faticoso essere in un tempo che appare per certi versi “sospeso”, in cui è necessario tollerare vissuti ambivalenti, quote di “ignoto”, di non conosciuto, che vanno a creare realtà in divenire, in costruzione quindi incomplete, spezzettate, come tante tessere di un mosaico ancora da collocare.
Forse anche per questo alcune persone si affannano seguendo un ritmo convulso, dove le cose che si vorrebbero fare diventano molte di più del tempo che poi in realtà si ha a disposizione.
Qualche volta mi è capitato di sentir dire: “ci vorrebbe una giornata più lunga, 24 ore non bastano!”.
Spesso la nostra stessa giornata è articolata all’insegna dell’avere fretta, dell’efficienza immediata, di ritmi frenetici. Un po’ è un costrutto del nostro tempo, in cui “tutto è possibile”, tutto è “disponibile”, tutto è “alla portata di tutti”; per ogni tipo di cosa sembra palesarsi una “soluzione immediata”: un farmaco per dimagrire, un abito nuovo per essere più belli, un messaggio che arriva istantaneamente e ci mostri le sue belle spunte blu… va bene, sappiamo che è stato letto; quali reazioni automatiche fa nascere in noi la condizione di incertezza legata all’attesa della risposta, quell’ignoto che c’è fra noi ed una certezza?
Spesso essere sempre operativi ci fa sentire “efficienti”, “produttivi”, sicuri. Al contrario, attendere ci sembra una grande perdita di tempo!
Alcune volte può capitare che questa idea di fretta, la sensazione di doversi sbrigare, pervada anche aspetti importanti e delicati della nostra vita. Come viviamo quei momenti legati ad esempio, alla relazione con l’altro, quando ci rendiamo conto di avere tempi diversi di gestire un’attività, di programmare un’esperienza o di maturare una scelta?
Non sempre il nostro tempo psicologico coincide con quello dell’altra persona e questa mancata “sincronia” produce, alcune volte, vissuti negativi difficilmente tollerabili.
Ti è mai capitato? Come ti sei comportato? Sei riuscito a tollerare questa “discrepanza” o ti sei lasciato sedurre dalla tentazione di venirne fuori con rapidità?
Certo, il “vivere di corsa” non è necessariamente un problema, ritengo lo possa diventare in alcune situazioni:
nel momento in cui iniziamo a percepire quella modalità come la nostra unica alternativa possibile;
quando sentiamo il bisogno di rallentare, ma non ci riusciamo (pena il fare capolino di vissuti negativi);
quando non riusciamo a concepire la possibilità di velocità differenti rispetto alle diverse situazioni che ci troviamo ad affrontare e rispetto alle differenti fasi della vita.
Sempre all’interno di questa mia riflessione mi domando se non ci sia qualcosa che rischiamo di perdere con questo nostro bisogno di “riempire”.
Perché alcune volte può essere importante “attendere”?
Intanto mi viene in mente che vivere quell’ignoto ci permette di porci delle domande, di attivare una riflessione, sviluppare un pensiero. Consente anche di dare spazio alle nostre intuizioni, personali e creative, che per venire alla luce, necessitano un contatto con i nostri vissuti.
In secondo luogo ci consente di “pregustare” il risultato, di immaginare quanto possa essere prelibato un cibo che stiamo preparando, un progetto che stiamo costruendo, permettendo un confronto con le nostre aspettative, fantasie, tra la quello che accade e i nostri bisogni, e di comprendere eventualmente cosa modificare per sentirci più in armonia con i nostri obiettivi.
Prenderci del tempo permette anche di acquisire un consapevolezza personale sui vissuti difficili che l’attesa stessa genera in noi: cosa sentiamo? Qual è la spinta che ci porta ad agire? Da cosa deriva? Quali sono le nostre paure?
In ultimo, ma certamente non meno importante, agevola l’attivazione del “desiderio”; cos’è che non abbiamo e invece vorremmo? Come fare per ottenerlo? Aspetto questo che è un motore prezioso, che consente una spinta propulsiva in direzione di una vita, certo alcune volte più lenta, ma su misura per noi!
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Vado di fretta, non ho più tempo datemi retta…
Diceva Aristotele “Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi del tempo libero” ma quando vivi la città capita di ascoltare commenti del tipo: “Oggi tutto di corsa!”, “Sono stanchissimo!”, “Sono sommerso dal lavoro!” ed anche “Ci vorrebbero giornate di 48 ore per fare tutto ciò che bisogna fare!”. La routine e gli impegni ci invitano ad inserire, uno dietro l’altro, impegni ed appuntamenti. Le agende ce lo ricordano ed anche se vogliamo incontrare il nostro partner, partecipare ad una riunione scuola-genitori o anche andare da soli al cinema bisogna spesso consultare colei che è la nostra segretaria cartacea o virtuale, che ci ricorderà “Oggi ed a quell’ora, probabilmente, non puoi!”. Ed ecco che la mente si arrovella su come poter riuscire ad inserire quell’ennesimo appuntamento, cascato lì tra capo e collo e che non avevamo preso in considerazione e tenuto sotto controllo, con il rischio di scombinarci i piani di un’ennesima organizzazione giornaliera e lavorativa.
Essere un lavoratore oggi, in una società che richiede livelli alti di performance e di obiettivida raggiungere, può essere complesso. Alle volte capita di dover essere produttivi anche fuori dal convenzionale orario di lavoro, magari durante la notte, il weekend o durante le pause.
Ma cosa ci spinge ad essere così performanti? A definire obiettivi, uno dietro l’altro, da raggiungere? Cosa ci spinge ad impiegare anche il nostro tempo libero al lavoro?
Del bisogno incontrollabile di lavorare incessantemente ne parlava, già nel 1971 un medico e psicologo statunitense, W. E.Oates. Ed oggi, tale bisogno incontrollabile, rientra nel novero delle New Addiction ovvero in tutte quelle che vengono definite le nuove dipendenze. Tale bisogno si differenzia, però, proprio per il fatto che non si ricorre ad un agente esterno, come ad esempio l’uso di sostanze, per ottenere un immediato appagamento, ma invece ad un’attività che fa parte della vita quotidiana di una persona, finalizzata in questo caso ad una remunerazione. Tale bisogno incontrollabile è conosciuto come Workaholism e significa letteralmente “ubriaco di lavoro”. Robinson (1998) la definisce anche come la “dipendenza ben vestita” proprio per il suo carattere pervasivo ma non riconosciuto dalla società.
Ma quindi si può dire che il bisogno di lavorare incessantemente, utilizzando gran parte del nostro tempo libero, rappresenti una dipendenza?
In alcuni casi, sembrerebbe che, la vita intera sia centrata sul lavoro con conseguente e pesante riduzione del tempo libero da dedicare ad altro. Alla fine il tempo libero viene completamente assorbito dal lavoro e le pause, il divertimento, l’affetto e interesse vanno via via scemando. Il lavoro diventerebbe, come scrivono Lavanco & Milio (2006), uno stato d’animo, una via di fuga che libera il soggetto dall’esperire emozioni, responsabilità, intimità nei confronti degli altri. E l’elemento della vita che generalmente si altera più precocemente, a causa della dipendenza da lavoro, è il contesto familiare. Arrivando a percepire il coniuge come un estraneo tanto da conseguirne un serio deterioramento della sfera affettiva che indurrebbe aridità, apatia, cinismo e indifferenza tra i coniugi. Il lavoro ha, quindi, un effetto anestetizzante sulla sfera emotiva tanto da indurre una sensazione di distacco e di insensibilità. La sofferenza della famiglia è connessa a un sentimento di trascuratezza, solitudine, abbandono e le proteste dichiarate vengono vissute dal dipendente da lavoro come segno di rifiuto e ingratitudine.
Il fenomeno del Workaholism rappresenterebbe un caso al limite ma nella vita di tutti i giorni noi come percepiamo il nostro lavoro, quali significati gli attribuiamo e come influisce nella gestione del nostro tempo libero e/o familiare?
La fretta, l’imprevisto, il controllo, la riorganizzazione son tutti aspetti con i quali bisogna far i conti nella gestione della nostra giornata e mi vengono alla mente alcune frasi:
“…corro veloce per fare in modo che neanche l’imprevisto mi raggiunga!;
“Ho bisogno di sapere già da prima come sarà altrimenti non mi sento tranquilla”;
“Quando le cose son diverse da come me le ero immaginate mi confondo”.
Ma che effetto ci fa tutto questo? Come reagiamo al bisogno di tenere sotto controllo e di gestire anche l’improvviso imprevisto a valle degli impegni lavorativi e familiari?
Quali confini decidiamo di definire tra quella che rappresenterebbe la nostra vita pubblica e quella privata ed anche come si uniscono questi due aspetti?
In fine quale pensiero possiamo fare circa questa modalità di gestire gli eventi del quotidiano? È una modalità che ci fa sentire “comodi”con noi stessi? Ci fa stare bene oppure desideriamo altro?
Orsola Monteleone
Bibliografia:
- Lavanco, G., & Milio, A. (2006). Psicologia della dipendenza dal lavoro. Roma: Astrolabio Ubaldini.
- Oates, W.E. (1971). Confessions of a workaholics: The factsabout work addiction. New York: World.
- Robinson, B.E. (1998). Chained to the desk: A guidebook for workaholics, their parents and children, and the clinicians who treat them. New York: New York University Press.